Rapporto finale I NTERVENTI A FAVORE DEI DISABILI ADULTI,SUPPORTO ALLE FAMIGLIE E PREPARAZIONE AL "DOPO DI NOI" IN LOMBARDIA Con il Contributo di Fondazione Cariplo Indice 1.
Il punto di vista della famiglia Appendice 1
Il punto di vista della
famiglia
Primi
soggetti dell’azione familiare, in risposta all’evento disabilità, sono
ovviamente i genitori, il cui stesso legame di coppia viene duramente messo
alla prova. Ma non basta che la coppia "tenga", che sia in grado
di affrontare e superare le prime difficoltà: la famiglia nucleare può e
deve confrontarsi con il sistema parentale allargato, che deve essere in
qualche modo riconciliato con la nascita di un bambino disabile, ma
che soprattutto può essere utilizzato e coinvolto come risorsa nella
gestione della cura e dell’assistenza del bambino. Non sempre, però, la
famiglia allargata è disponibile, né la coppia considera questa rete come
da coinvolgere; del resto, non esistono modelli buoni o cattivi di
presa in carico familiare, ma ogni famiglia riscopre le proprie potenzialità
solidaristiche con strategie originali, legati alla qualità delle
relazioni, al momento storico, in un hic et nunc che va affrontato in
situazione. 1.2 L’inevitabile apertura all’esterno È
proprio nel passaggio tra interno ed esterno familiare che si innescano le
difficoltà maggiori, perché da un lato la famiglia non può bastare a se
stessa, dall’altro il contesto esterno non sempre accoglie adeguatamente
la condizione di disabilità della persona e le esigenze che la famiglia
esprime. E’ come se, in un certo senso, di fronte alla necessità di un
incontro, di una inevitabile, necessaria e indispensabile collaborazione
orientata alla costruzione del bene del soggetto disabile, famiglia e
contesto esterno non fossero capaci di incontrarsi in un terreno comune;
nessuna delle due può giocare "solo in casa", ed entrambi si
trovano a giocare "in trasferta". Ovviamente è la famiglia a
subirne maggiormente le conseguenze, avendo comunque in carico il problema,
e dovendo uscire da una modello di autosufficienza, di autoreferenzialità,
non più adeguato ai bisogni propri e del nuovo membro con disabilità. 1.3 I bisogni delle famiglie: servizi, ma anche informazione, orientamento, bussole… La
disabilità esprime domande che investono, nel corso della vita del bambino
e della sua famiglia, numerosi ambiti, dal mondo del lavoro alla scuola, dai
servizi socio-sanitari all’urbanistica, dal turismo ai mezzi di
comunicazione; questa eterogeneità di riferimenti si traduce poi di fatto
in una frammentazione di norme, di organizzazioni, di percorsi, che rende
molto complessa la navigazione. Alla famiglia serve quindi, prima di tutto,
una bussola, un guida nel labirinto, una mappa per non perdersi, e
soprattutto per potersi avvalere di risorse di cui ha pieno diritto. Ma
anche la pura e semplice raccolta/disponibilità di informazioni appare
essere un primo punto dolente. 1.4 Il ruolo delle associazioni La
presenza di un forte e combattivo associazionismo familiare è storicamente
una caratteristica degli interventi e dei servizi che si misurano con il
tema della disabilità; la lunga storia associativa che contraddistingue
questo settore ha generato inoltre forti differenziazioni, traiettorie
evolutive particolari (per esempio da associazione di famiglie a ente
erogatore di servizi anche di elevatissima specializzazione e qualità
scientifica), in cui a volte si rischia di perdere la principale, essenziale
qualità del fare associazione: la capacità di far uscire la famiglia con
un soggetto disabile dall’isolamento, dalla solitudine, dallo stigma,
attraverso la consapevolezza della condivisione di un problema. 1.5 Ci si deve pensare…
La
sintesi del problema del "dopo di noi", così efficacemente
rappresentata, in modo drammatico e semplice, dal brano di intervista qui
riportato, fissa i termini concreti, operativi che segnano la vita
quotidiana delle famiglie con figli disabili, a partire dall’inizio
dell’esistenza del figlio, ma con sempre maggiore urgenza e preoccupazione
mano a mano che si avvicina l’età adulta del figlio, e soprattutto che si
avvicina l’età anziana dei genitori, o, peggio, cominciano a sorgere i
primi problemi di salute in uno di essi (e soprattutto nel care-giver di
riferimento, in genere la madre). 1.6 Il difficile distacco Dal
punto di vista affettivo-relazionale, il distacco-distanziamento dei
genitori nei confronti di un figlio disabile pone certamente maggiori
problemi, rispetto a quelli di un distacco in assenza di problemi di
disabilità, dal momento che occorre saper "lanciare" verso
l’autonomia un soggetto che non sarà totalmente autonomo, anzi, è sempre
stato dipendente in modo decisivo dalla presenza della rete familiare
(soprattutto genitori, ma anche fratelli, oltre che altre risorse informali
e formali). E’ cioè più difficile (e con molte ragioni…), per i
genitori dei disabili, la pensabilità stessa del distacco del proprio
figlio, anche quando è adulto, magari anche quando è socialmente integrato
(contesti lavorativi, formativi, associativi). 1.7 Un futuro tra famiglia e istituto Prima ancora di considerare le possibilità "esterne", nelle famiglie ci si interroga sulla possibilità di mantenere il disabile all’interno delle relazioni familiari primarie; in questo caso entrano in gioco i fratelli (laddove presenti), e il "progetto assistenziale" che i genitori pensano di poter caricare su di essi. L’atteggiamento prevalente pare però essere, realisticamente e prudenzialmente, abbastanza protettivo, e molto meno coinvolgente di quanto non sia stata la propria responsabilizzazione di genitori (teniamo conto che queste sono le famiglie che hanno scelto, in modo consapevole, di provvedere direttamente alla cura quotidiana dei propri figli disabili). persona e lei, perché è da lavare, da spostare, S. mi dà una mano, per il resto… le devo dare da mangiare, se deve andare dal medico lo fa lei, però tenerla a tempo pieno… ci vuole una persona a tempo pieno che l'accudisca. S.. deve lavorare, domani avrà i suoi figli, la sua famiglia, il suo lavoro. Non so fino a che punto potrà seguire sua sorella, potrà seguirla se appoggiata a un centro, andrà, vedrà, quello che le manca ecc., perché poi è molto affiatata alla sorella, Alle volte è fin troppa protettiva, non solo verso la sorella anche verso di me, alle volte è eccessiva, se solo ho qualcosa: "Cosa è successo? Non stai bene?", delle volte mi fa male la testa, le devo dire di lasciarmi stare. Dieci minuti dopo: "Mamma come va, ti è passato?" "No, S.. lasciami stare!", dopo un quarto d'ora "Ti è passato?" "Smettila, lasciami tranquilla". Adesso forse da sposata un po' meno, anche se tutte le sere passa di qui poi viene di là. Appare sempre meno realistico (né auspicabile, si direbbe), per i genitori il pensiero di poter far permanere il proprio figlio disabile all’interno di circuiti assistenziali familiari; scatta così la ricerca di forme diverse, in cui la residenzialità è ovviamente aspetto irrinunciabile, e parole come "istituto", "comunità", "casa alloggio" assumono valenze più pragmatiche, meno ideologiche; così la stessa parola "ospizio" appare come "risposta" tra l’altro condivisa, nell’immaginario familiare, come ospitalità protetta per genitori anziani e figlio disabile insieme…)
Anche gli aspetti economici e patrimoniali sono necessariamente affrontati da queste famiglie, nel "pensare il futuro".
Ma, in conclusione, il tema del "dopo di noi" appare solo timidamente oggetto di una nuova alleanza progettuale tra famiglia e servizi, e più in generale tra famiglia e mondo esterno; "il cerino acceso" rimane nelle mani della famiglia… 2. Il punto di vista degli operatori 2.1 Le famiglie dei disabili: fragili e resistenti… Il
tema del "dopo di noi" emerge spesso, nella lettura degli
operatori, come un problema della famiglia, come la mancanza e
l’esaurimento di risorse ed energie proprie del sistema familiare di
origine (quando i genitori diventano vecchi, quando muoiono, quando
"non riescono più"….).
Genitori che hanno lottato e lavorato anni per vedere affermati i diritti dei propri figli e garantita una serie di servizi, quando incominciano ad essere anziani, non ce la fanno più ad occuparsi dell’ennesimo problema, che appare come insormontabile: che cosa succederà dopo la loro morte. Tanto più che le preoccupazioni quotidiane non cessano di esistere e quindi pensare anche al dopo significherebbe raddoppiare il carico delle incombenze e delle fatiche. È difficile per il genitore da solo riuscire a ragionare in un’ottica di lungo periodo, per questo va aiutato.
2.2 La solitudine delle famiglie Ma una parole chiave, che emerge da numerosi operatori, rimane la solitudine delle famiglie: imputata all’atteggiamento della famiglia stessa, oppure argomentata come difficoltà di relazione tra famiglia e servizi, o ancora nell’incapacità di fare rete, ma il nodo centrale della fragilità della famiglia con un membro disabile risiede nel suo isolamento.
Quindi la famiglia da sola non ce la può fare; spesso capita che le famiglie, oramai in burn-out, deleghino tutto ai servizi e abbandonino il proprio congiunto, anticipando in qualche modo il "dopo di noi". Questi sono effetti di una situazione paradossale che può essere superata offrendo l’opportuna assistenza, aiutando la famiglia a non restare da sola. 2.3 Il "dopo di noi": un "buco" istituzionale In
questi ultimi anni sono quindi state soprattutto le famiglie, interessate
direttamente dal cambiamento del bisogno e delle proprie risorse, a dare
voce al problema del "dopo di noi", soprattutto attraverso lo
strumento dell’associazionismo. Anche gli operatori che lavorano a diretto
contatto con le persone portatrici di disabilità si rendono oggi conto
dell’emergenza anche quantitativa del problema, ma manca ancora un
risposta istituzionale strutturata. 2.4 Rilevare l’entità del problema Se
fino a trent’anni fa era prevista come unica soluzione
l’istituzionalizzazione e la questione non si poneva nemmeno (anche per la
minore diffusione quantitativa di disabili adulti), oggi, che molte persone
portatrici di disabilità hanno la possibilità di vivere da adulte, con le
proprie famiglie di origine ma anche oltre le proprie famiglie di
origine, bisogna incominciare a chiedersi dove andranno a stare queste
persone dopo che i loro genitori saranno scomparsi e soprattutto chi si
occuperà di loro. I servizi però non sempre hanno la capacità di
conoscere puntualmente le situazioni di bisogno, che molto spesso restano
sommerse e sconosciute per anni. Qualche ambito già attivo sulla disabilità
può essere in questo senso utile per una maggiore consapevolezza, come ad
esempio i CSE.
Riuscire
a stabilire l’entità dell’utenza che in un medio-lungo periodo avrà
bisogno di un intervento sul dopo di noi, permetterebbe inoltre di
programmare il servizio, ma in mancanza di un’utenza certa l’operazione
diventa alquanto complicata, se non impossibile da realizzare. Gli operatori
hanno avanzato diverse proposte per risolvere il problema del mancato
rilevamento del bisogno. Bisognerebbe costruire delle anagrafi dinamiche che
permettano di estrarre i dati necessari e sarebbe altrettanto auspicabile
fare delle indagini nei centri residenziali per capire l’entità
dell’utenza. 2.5 Non "dopo di noi", ma "durante noi" Il
problema del "dopo di noi" consiste anche nel costruire un cammino
attraverso un percorso di crescita e di autonomizzazione dalla propria
famiglia della persona portatrice di disabilità; alla domanda posta su
quando bisognerebbe incominciare ad affrontare un discorso sul "dopo di
noi", gli operatori del settore rispondono che l’ideale sarebbe
intervenire il prima possibile, promuovendo le potenzialità residue della
persona disabile, secondo la gravità dell’handicap, da subito, in modo
che non si estinguano. 2.6 Progetto individualizzato e partnership con le famiglie D’altra
parte non esiste una soluzione univoca al problema di che cosa succederà
alla persona con handicap una volta che la sua famiglia non sarà più in
grado di occuparsi di lui, data la grande variabilità di fattori personali
e sociali che possono qualificare la condizione del singolo disabile: tipo
di disabilità e competenze personali, dimensioni e qualità della rete
familiare residua, disponibilità di servizi socio-sanitari, qualità del
contesto sociale (architettonico, culturale, ecc.). È la legge stessa che
impone oggi progetti individuali per ogni utente (e non solo rispetto al
"dopo di noi"). Realizzare percorsi ad hoc studiati sulla
persona e sul suo specifico bisogno non è in alcun modo un’impresa di
facile successo.
Questa
dinamica collaborativa tra servizi e famiglia esige quindi un atteggiamento
culturale per certi versi nuovo, da parte degli operatori dei servizi, che
sia capace di valorizzare il sistema familiare come risorsa primaria,
strategica, con cui costruire una vera e propria alleanza progettuale e
operativa, una partnership stabile e dinamica nel proporre e
realizzare progetti e interventi a favore del disabile adulto, anche in
funzione della progettualità sul "dopo di noi". 2.7 L’autonomia del disabile Il
tema dell’autonomia e dell’autodeterminazione del soggetto disabile è
quindi un nodo irrinunciabile delle riflessioni sul "dopo di noi",
e in qualche modo costituisce un quesito forte anche nei confronti
dell’esperienza familiare; se infatti si riconosce che anche un individuo
portatore di disabilità ha diritto ad avere una qualità della vita
soddisfacente, anche attraverso la possibilità di stimolare in
continuazione le sue capacità, questo riguarda la progettazione dei
contesti entro cui si realizzerà il "dopo di noi", ma non può
non interrogare anche l’esperienza vissuta in famiglia. Come hanno
sottolineato numerosi operatori, a conferma della condivisione di questo
elemento, tutti possiedono delle potenzialità che vanno stimolate,
attivate, messe in gioco, ed è compito dell’ambiente sociale che circonda
queste persone di metterle in grado di poter sfruttare le loro abilità.
Creare un ambiente idoneo per la persona portatrice di handicap, non
significa proteggerlo, rinchiuderlo o metterlo sotto una campana di vetro,
bensì porlo nelle condizioni di potere agire in autonomia a partire dalla
sua specifica situazione. 2.8 Progettare Di fronte alla richiesta di illustrare esperienze o iniziative già in atto per rispondere al problema del "dopo di noi", un dato rilevante che emerge dalle interviste è la presenza di una specifica e diffusa attenzione al tema formativo, alla sensibilizzazione delle famiglie, alla costruzione di un pensiero più adeguato al "dopo di noi". Il dato appare interessante, anche se un po’ ambivalente:
L’impressione
che si raccoglie complessivamente da questo materiale è che le idee, le
fantasie, i progetti sognati si stiano ormai coagulando attorno ad un blocco
già ben definito di criteri concreti, di indicazioni operative, di giudizi
sui pregi e difetti delle diverse azioni possibili; in altre parole, più
che di fantasia, sembra ci sia bisogno di supporto (finanziario,
organizzativo, di modello territorio, formativo, ecc.) ad una capacità
progettuale che deve però "partire dal basso", valorizzando
proprio il punto di vista di chi, nel concreto, già opera in questo
difficile ambito di intervento. 3. Indicazioni progettuali Il
ricco ed eterogeneo materiale raccolto durante la presente indagine consente
di individuare, in sede conclusiva, alcune riflessioni che possono orientare
sia le strategie di azione dei disabili e delle loro famiglie (la domanda
di servizi), sia le scelte operative e programmatorie degli operatori e
degli enti, pubblici e privati, che devono programmare, gestire ed erogare i
servizi (l’offerta). In particolare, a seguito dell’indagine sul campo sono rilevabili due ordini di indicazioni conclusive:
3.1 I temi generali di riflessione 3.1.1 Persona e disabilità Le
riflessioni sul "dopo di noi" devono essere collocate
all’interno di un più ampio discorso sul tema della disabilità, e sul
modo in cui sostenere i soggetti disabili e le loro famiglie. Il "dopo
di noi", quindi, diventa un luogo specifico di difficoltà, in stretta
connessione, però, con l’intera modalità di gestione del "problema
disabilità". Senza chiarezza su questo tema anche la progettazione
analitica di risposte al problema della cura del disabile adulto privo di
reti familiari rimane incapace di offrire risposte soddisfacenti. Questa difficoltà trova possibili correttivi (reali, non teorici), in tre principali capisaldi, non estranei all’attuale cultura dei servizi pubblici, anche se non sempre concretamente agìti:
a) La lettura della situazione del singolo soggetto (assessment individuale) non deve essere orientata solo alla ricerca e alla comprensione/misurazione dei deficit (peraltro necessaria), quanto piuttosto alla scoperta, valorizzazione, promozione e sostegno delle "abilità disponibili (presenti o potenziali)". L’accompagnamento alla persona disabile, a maggior ragione se adulta, e a maggior ragione in considerazione del progressivo indebolirsi delle risorse familiari di cura e accudimento (soprattutto dei genitori), deve assolutamente centrarsi sulla "ricerca e valorizzazione del potenziale", più che sul pur necessario "verificare la natura e le qualità dell’handicap":
Altro aspetto meritevole di sottolineatura autonoma, anche se non direttamente inscrivibile nelle riflessioni sul "dopo di noi", è la necessità di progetti/percorsi di aiuto che garantiscano la continuità nel corso della vita del disabile. In alcuni casi rimangano invece dei "buchi" (ad esempio dopo l’uscita dalla scuola dell’obbligo), in cui l’interruzione della "manutenzione delle competenze" faticosamente e tenacemente promosse nelle fasi di vita precedenti rischia di essere vanificata da periodi di parcheggio (ad esempio, rischio per i CSE di essere "assistenziali"). b) Condizione essenziale per poter sviluppare questa "attenzione positiva" è l’esistenza e il perseguimento costante di un "progetto personalizzato", costantemente pensato in collaborazione con la famiglia, che abbia all’interno dei servizi un luogo esplicito, un soggetto che ne abbia titolarità/responsabilità, e che possa anche far da regia all’interagire dei diversi soggetti pubblici e privati che possono attivarsi a sostegno del disabile (famiglia, volontariato, servizi sociali e sanitari, scuola, ecc.). In questa ottica si conferma essenziale garantire la "continuità" nel tempo, non solo in termini di cura riparatoria, ma soprattutto rispetto al "mantenimento in azione" delle competenze residue, che verrebbero invece gravemente compromesse se non costantemente sollecitate (ad esempio nel caso di un lungo periodo di stand-by dopo la scuola dell’obbligo). c) La prospettiva di costruire una rete integrata di risposte, erogate da diversi soggetti, costituisce in questo senso una ulteriore opportunità, proprio perché si caratterizza fin dall’origine in termini di diversità, e quindi di maggiore flessibilità e adattabilità alle diversità dei bisogni dei soggetti disabili e delle loro famiglie (vedi anche il successivo paragrafo sui servizi). Si potrebbero così valorizzare all’interno di un progetto unitario di territorio, le specificità di tutti coloro che agiscono anche su temi specifici. 3.1.2 Famiglia e famiglie, insieme La centralità della famiglia come soggetto/risorsa di cura sollecita una particolare attenzione in due direzioni:
Devono inoltre essere individuate, nella riflessione sui compiti di cura delle famiglie di soggetti disabili, alcune "macro-funzioni" necessarie per il benessere della persona:
Evidentemente occorre "sostituire" la famiglia in tutte queste funzioni, nel farsi carico dei bisogni del disabile quando le capacità familiari si indeboliscono o scompaiono; il rischio è invece di offrire/garantire solo alcune di queste dimensioni, rispondendo solo parzialmente ai bisogni della persona disabile, come ad esempio offrire una residenzialità solo "istituzionale", e non "familiare", oppure garantire pienamente solo la sostituzione dei "tutori dei diritti legali". A questo riguardo emergono diversi punti critici, che occorre sottolineare per non ricadere in un "familismo" che rischia di sovraccaricare la famiglia di compiti "impossibili" o eccessivi, a partire da una "retorica della bontà della famiglia": alcuni sono legati alle dinamiche interne al sistema familiare, altri al rapporto tra famiglia e contesto esterno. Un primo dato rimanda alla consapevolezza che la funzione protettiva delle famiglie con membri disabili è evidentemente potenziata rispetto a quella delle famiglie prive di questa difficoltà; ciò si manifesta anche con il crescere dell’età dal figlio, al punto che in alcuni casi le famiglie non "vedono", non riescono ad elaborare un pensiero di "emancipazione". Occorre quindi favorire la riscoperta del distanziamento come valore buono, anche nei confronti di un figlio disabile; ciò potrebbe portare anche ad un miglioramento della capacità di cura della famiglia. Altrimenti si corre il rischio che il ruolo di cura della famiglia si costruisca, nel corso del tempo, in modo passivizzante, non autonomizzante riguardo al disabile, spesso ostacolando anche la possibilità di riscoperta delle potenzialità del soggetto disabile (c’è sempre qualcuno che fa per lui…). Ovviamente questo penalizza l’autonomia del soggetto disabile, ma diventa un problema tanto più drammatico di fronte all’inevitabilità del "dopo di noi". Ciò può scontrarsi con un altro rischio spesso presente nei nuclei familiari con persone disabili, quello dell’isolamento della famiglia nei confronti dell’ambiente esterno, considerato – e purtroppo spesso a ragione – ostile, stigmatizzante o, nella migliore delle ipotesi, indifferente rispetto ai problemi della famiglia, o incapace di capirli. Tale isolamento/difficoltà di comunicazione si indirizza anche nei confronti dei servizi socio-sanitari pubblici e verso l’associazionismo; questo è un nodo essenziale, dal momento che famiglie isolate e/o chiuse sono partner difficili nella progettazione di interventi di sostegno, e rischiano inoltre il burn-out, o comunque una gestione "non promozionale" nella cura del disabile. In questo senso diventa centrale il rilancio e la diffusione di esperienze di auto e mutuo-aiuto, in cui aiutare le famiglie a uscire dell’isolamento, sia nella gestione dei compiti di cura, sia nel progettare la possibilità (e nel gestire l’angoscia) del "dopo di noi". Per le famiglie, a questo proposito, è ovviamente cruciale la possibilità/disponibilità al coinvolgimento in una trama associativa, che è spesso preziosissima risorsa per scambio di esperienze, per pensieri su di sé altrimenti "poco possibili", per aiuto reciproco tra soggetti che condividono la stessa condizione di difficoltà. Tuttavia è evidente che sono molto numerose le famiglie che non riescono ad agganciare/essere agganciate dall’associazionismo, e che quindi si trovano sole di fronte ai propri bisogni e alla loro trasformazione, avendo come unico interlocutore "la rete di offerta dei servizi", anziché un soggetto che condivide. Essenziale diventa inoltre, in quest’ottica, il passaggio dal "dopo di noi" al "durante noi", meglio precisato con l’espressione "insieme a noi". In altri termini occorre pensare le strategie di cura del "dopo", quando i genitori non ci saranno più, molto prima del momento di crisi della capacità di cura della famiglia. Solo in tal modo la famiglia potrà contribuire al progetto del "dopo di noi", costruendo percorsi assistenziali "continui", e soprattutto potendo costruire in modo attivo, insieme ad altri, il progetto di vita futura per il proprio figlio disabile; ciò richiede peraltro l’attivazione di percorsi di accompagnamento alla famiglia, nell’elaborare questo suo poter essere "trampolino di lancio" per l’uscita del figlio; ma questo esige anche che questa riflessione (la pensabilità del "dopo di noi") venga avviata in anticipo rispetto all’emergenza, al momento in cui "i genitori non ce la fanno più". In questo potrebbe assumere particolare rilevanza la presenza e il coinvolgimento di fratelli/sorelle, spesso eredi dei compiti di cura del disabile, ma non sempre esperti. Anche in questo caso, il pensiero e l’azione di cura e presa in carico non possono nascere dall’oggi al domani, nel momento in cui entra in crisi la capacità di cura del sistema familiare. Troppo spesso, invece, nella dinamica familiare queste figure sono escluse totalmente dai compiti di assistenza, salvo poi dover rientrare improvvisamente, drammaticamente, nei momenti di emergenza. Molto meglio, anche in questo caso, coinvolgere in anticipo anche gli altri membri del nucleo, e segnatamente fratelli/sorelle, che nel "dopo di noi" devono comunque rientrare in gioco. Ovviamente questa riflessione deve poi essere contestualizzata nei complessi e articolati "giochi relazionali" che si sviluppano in ogni famiglia, anche se con esiti e modalità molto differenziate, a partire dalla nascita di un figlio disabile. 3.1.3 I servizi in trasformazione Sul
versante dei servizi, invece, il primo dato che emerge con chiarezza è che
il processo di complessiva trasformazione organizzativa dei servizi
socio-sanitari costituisce oggi un punto di forte criticità, anche
per lo sviluppo della rete di servizi per i disabili in generale, e per il
"dopo di noi" in particolare. Al di là dell’ampia - e spesso
infuocata – discussione sui criteri ispiratori generali, si sottolineano
qui alcuni punti rilevanti, che incidono direttamente sull’operatività
concreta degli interventi.
In questo senso la possibilità di usare vouchers o buoni–servizio, a disposizione degli utenti e delle famiglie, potrà essere un reale strumento di soggettività e di libertà di scelta degli utenti in funzione della adeguatezza delle informazioni disponibili, e della capacità di orientamento nella rete di opportunità presenti (eventualmente da supportare adeguatamente). Non irrilevante, in ogni caso, la preoccupazione sul "razionamento delle risorse finanziarie", che implicherebbe una riduzione complessiva dell’offerta di servizi. Tale prospettiva, molto realistica, si scontra tuttavia con l’altrettanto realistica previsione di una "crescita" dei bisogni di cura, anche nello specifico della disabilità, che dovrà essere comunque recepita nell’allocazione delle risorse per i servizi. A questo riguardo due sono le principali riflessioni:
Sempre rispetto al tema delle risorse disponibili, un'articolazione "classica" delle strategie/tipologie di intervento in ambito socio-sanitario (non solo nel settore della disabilità, ma qui con particolari accentuazioni) fa riferimento alle tipologie: prevenzione, cura, riabilitazione, promozione. Un equilibrato sistema di cure deve evidentemente garantire un mix equilibrato di interventi in queste quattro direttrici di azioni, in modo da offrire un ventaglio ampiamente differenziato di strumenti/protocolli di intervento, capaci di seguire in modo flessibile l’evoluzione dei bisogni del soggetto e i cambiamenti nelle capacità di cura della famiglia. A questo proposito sembra oggi esistere, nel meccanismo di allocazione delle risorse pubbliche (fondi per progetti) un certo squilibrio a favore degli interventi di riabilitazione (prettamente fisico-sanitaria individuale), ai danni delle altre direttrici di azione, magari più "relazionali" (ed in particolare della "promozione" delle risorse familiari). Nell’incontro con i servizi pubblici, d’altro canto, la famiglia si trova spesso in difficoltà, sia rispetto alla disabilità in generale, sia rispetto allo specifico del "dopo di noi". E’ chiaro, ad esempio, che la preoccupazione e la domanda sul "dopo di noi" sarà tanto più drammatica e impensabile, per i genitori, se non sono chiaramente visibili soluzioni, risorse, strumenti che possano dare risposta a questa domanda. Anche in questo caso sono emersi diversi aspetti:
3.1.4 Alcune priorità operative Da
ultimo si segnalano in sintesi alcune "idee progettuali", alcune
possibili piste di lavoro (in aggiunta a quanto in vario modo esplicitato
nei punti precedenti) che, verso le famiglie o verso i servizi, potrebbero
costituire fattori di innovazione/miglioramento per rispondere ai bisogni
delle famiglie con disabili adulti e al nodo del "dopo di noi". Informazione Un primo tema, già accennato, è la centralità dell’informazione, per le famiglie, per la rete dei servizi, per la pubblica opinione:
Piani di Zona e coordinamento Un secondo nodo è individuato all’interno del funzionamento dei servizi, in questo specifico momento storico, e riguarda la consapevolezza della centralità dei Piani di Zona, ambito entro cui si individuano priorità, modelli operativi, sinergie e destinazione delle risorse (e in cui può/deve trovare spazio e riconoscimento il valore del "progetto personalizzato", anche in termini di sistemi valutativi e di monitoraggio). Essi possono anche essere strumento privilegiato per la costruzione della rete (progettazione partecipata, condivisione nella gestione, partecipazione nella valutazione degli interventi). Altro ambito organizzativo essenziale per l’intervento sulla disabilità adulta è la costruzione e la valorizzazione dei "tavoli di coordinamento", strumento essenziale per "fare rete", anche se spesso frustranti e apparentemente "inutili". La tutela legale Un terzo aspetto di centralità strategica riguarda la tutela legale del disabile (ampiamente presente anche nelle interviste a famiglie e operatori), individuando anche sperimentazioni di "affidamento eterofamiliare del disabile adulto", strumento che può anticipare – con scadenze temporali - la gestione delle problematiche di cura e di tutela giuridica (cfr. l’approvazione della legge sull’amministratore di sostegno e le sintetiche riflessioni riportate nella Parte V del presente rapporto di ricerca). Risorse economiche La crescente scarsità di risorse per i servizi interessa anche questo specifico ambito di intervento, che peraltro esige risposte certe e durature, dato che il soggetto disabile, una volta privo della protezione del sistema familiare, è in evidenti condizioni di bisogno. Il dato più significativo emerso da questa indagine è la disponibilità, da parte delle famiglie, di offrirsi anche come "risorsa patrimoniale" per il futuro dei propri figli disabili, impegnando e investendo quote anche significative del proprio reddito in progetti futuri di cura. La difficoltà nel tradurre questa disponibilità in opportunità concrete si colloca a due livelli:
In effetti il tema del "dopo di noi", per le sue caratteristiche specifiche, potrebbe porsi come ambito privilegiato di sinergia (anche dal punto di vista delle risorse) e di collaborazione tra tutte le forze vive della collettività; le famiglie stesse, di fronte ad esso, non si tirerebbero certo indietro… Anche esperienze precoci di sperimentazione di vita autonoma dei propri figli disabili possono aiutare le famiglie ad elaborare, comprendere e coprogettare la possibile "uscita" del proprio figlio disabile ("scuola di vita attiva autonoma", Anffas). 3.2 Indicazioni operative per il "dopo di noi" Il paragrafo precedente ha segnalato alcune attenzioni "di sistema", premesse di grande importanza nel costruire progetti organici e adeguati di presa in carico del "dopo di noi". L’indagine ha però evidenziato anche la necessità di una attenzione a livello micro-sociale, capace di valorizzare (e di valutare) la qualità del servizio proprio nel momento della relazionalità, al di là di quanto prescritto nei Piani nazionali, nelle leggi finanziarie, nei progetti di sistema. Del resto questo è molto più comprensibile se si adotta il punto di vista delle famiglie (emerso con grande chiarezza in questo lavoro), che potrebbe essere sintetizzato da questa domanda: A chi affiderò mio figlio e tutti i suoi bisogni, quando non ci sarò più? Ma la risposta a questa domanda non si trova nelle grandi programmazioni dei servizi; si trova soprattutto nello sguardo degli operatori, nell’accoglienza delle strutture, nei colori e nell’ampiezza degli spazi: in sintesi, e nei sogni dei genitori, in una nuova famiglia. I punti seguenti vogliono quindi fornire alcune indicazioni a questo livello di micro-relazionalità, evitando il rischio di modellizzazioni ingegneristiche dei progetti, ma cercando invece intenzionalmente, nell’analisi e nella valutazione dei concreti progetti di intervento, quelle domande che consentano di costruire modalità di risposta individualizzate, su misura, in sintonia con quanto il disabile ha sperimentato nella propria famiglia di origine e potrà/dovrà continuare a sperimentare nella sua nuova "casa". Queste variabili possono essere descritte rispondendo alla frase: "Un progetto sul "dopo di noi" è buono quando…": Si basa su progetti individualizzati La
differenziazione dell’offerta deriva direttamente dall’irrinunciabile
esigenza di costruire percorsi di aiuto fortemente personalizzati, in
considerazione del tipo e grado di disabilità della persona, della sua
storia personale, familiare e sociale, del livello di competenza raggiunto
nelle varie funzioni della vita quotidiana, ecc: in una parola, in tutti
quegli aspetti che fanno di ogni persona un unicum irripetibile, e
che proprio per questa unicità devono essere il più possibile rispettate e
valorizzate. Questa è del resto l’aspettativa primaria della famiglia,
quando comincia ad elaborare concretamente il "dopo di noi" del
proprio figlio disabile: che possa essere accolto in un posto che lo veda
come persona, e non come "numero". Non si pone esclusivamente "dopo" la famiglia, ma coinvolge la famiglia anche nel "durante" L’attenzione
alla continuità del percorso di aiuto esige ovviamente una grande
attenzione al ruolo e alle strategie di azione della famiglia del disabile,
e segnatamente dei genitori, perché è insieme a loro che occorre costruire
il "dopo di noi", aiutandoli a progettare il futuro del proprio
figlio prima delle situazioni di emergenza e di difficoltà, "durante
noi", e più precisamente "insieme a noi". Esiste cioè un
ampio spazio di relazionalità, di supporto dialogico, di accompagnamento
nella riflessione culturale con le famiglie, che raramente viene agìto da
parte dei servizi socio-sanitari, troppo spesso costretti a occuparsi solo
di emergenza, di interventi urgenti, di "prestazioni fatte per", e
non di "percorsi realizzati insieme a". Non esclude la "famiglia estesa" (fratelli/sorelle/parenti), e al limite promuove "famiglie integrative" (affidatarie, accoglienti) Se
questo percorso di collaborazione viene agíto, diventa anche più facile la
valorizzazione dell’intero sistema relazionale familiare, spesso
trascurato sia dai servizi che dai genitori stessi; il coinvolgimento di
fratelli e sorelle costituisce spesso un fattore traumatico nella storia
personale del disabile e familiare nel suo complesso, proprio perché esso
diventa essenziale all’improvviso, anziché essere costruito nel tempo,
durante la vita della famiglia nel suo complesso, con coinvolgimenti magari
progressivi, e non "da subito integrali" (es. ospitare il proprio
fratello disabile in casa propria). Anche in questo ambito si tratta di un
lavoro di accompagnamento e di promozione culturale di tipo preventivo, che
dovrebbe essere agíto ben prima della fase dell’indebolimento delle
capacità di cura dei genitori. Forse in questo ambito potrebbe assumere
ruolo decisivo il coinvolgimento delle realtà di privato-sociale, più
libere negli strumenti e nei paradigmi di azione, e più vicine, come codice
valoriale e comunicativo, al linguaggio e all’orizzonte valoriale della
famiglia. Il dibattito sulle istituzioni totali e sulla qualità di vita nei servizi residenziali è troppo ampio e "adulto" per poter essere anche solo richiamato in questo contesto: conviene solo ricordare che le piccole dimensioni (quasi-familiari, si potrebbe dire) riescono a soddisfare numerose attenzioni ed esigenze che si sono confermate prioritarie anche in questa indagine, come ad esempio la riproduzioni di legami interpersonali caldi, di tipo familiare, o l’accessibilità di questi ambiti alla rete familiare residua, o la necessità di evitare la spersonalizzazione, oppure, ancora, la possibilità di mantenere un inserimento sociale nel territorio. Le piccole dimensioni, d’altro canto, spesso possono proporre problemi di economicità o di "garanzia diffusa di qualità", che devono essere affrontati con la massima serietà, senza banalizzazioni irresponsabili; tuttavia la natura dei bisogni da affrontare pretende che la sfida della qualità dell’intervento si giochi su questa caratteristica, evitando la scorciatoia delle "piccole dimensioni modulari", che riproducono contesti istituzionali totalizzanti e spersonalizzati. Ha al proprio interno offerte differenziate L’esigenza
di differenziazione, in molte esperienze analizzate, diventa inoltre una
domanda di apertura anche ad altre persone, ad altre condizioni, per evitare
il rischio della ghettizzazione; nasce così l’indicazione di inserire i
percorsi assistenziali e residenziali per i disabili adulti, che devono
essere costruiti con estrema attenzione ai percorsi individuali, quindi ben
progettati, "specializzati", all’interno di progetti più ampi,
capaci di offrire servizi e opportunità (residenziali e non) anche ad altre
tipologie di utenza. Riconosce, si inserisce e valorizza una rete integrata di servizi, prestazioni e offerte; sperimenta il collegamento con il territorio Se al centro dell’attenzione c’è un progetto individualizzato di assistenza che mantenga il disabile adulto il più possibile all’interno del suo contesto sociale di provenienza, una volta che la famiglia non riesce più a garantire il supporto adeguato ai suoi bisogni, diventa fondamentale il riconoscimento e la valorizzazione di tutte le risorse presenti o attivabili sul territorio stesso. I progetti sul "dopo di noi" devono quindi basarsi non solo su una "adeguatezza interna", ma soprattutto sulla loro capacità di fare rete, di valorizzare le connessioni , di essere aperti. Questa esigenza non dipende solo dalla crescente ristrettezza delle risorse disponibili, a fronte di un bisogno certamente in aumento, già oggi e sicuramente nei prossimi anni, anche se spesso in molti ambiti territoriali i servizi socio-sanitari pubblici sembrano avere questo approccio "strumentale" alla rete. Si tratta invece di riconoscere la comunità tutta come risorsa a disposizione di ogni persona (e quindi anche del disabile adulto), come ambito di opportunità per il proprio benessere e la propria dignità di persona e cittadino; ma in questo assume valore decisivo la modalità con cui tutti gli attori si pensano e agiscono come appartenenti ad un luogo sociale condiviso, di cui valorizzare il bene comune, oppure se prevalgono le tendenze centrifughe, gli interessi particolari, le strategie competitive e conflittuali. Del resto una delle sfide della trasformazione del sistema dei servizi socio-assistenziali è proprio nella capacità di costruire un "sistema integrato di interventi e servizi" (vedi il titolo stesso e la logica complessiva della L. 328/2000), in cui tutti gli attori sociali possano costruire legami, collaborazioni, sinergie: in una parola, "fare rete". Ha modelli gestionali trasparenti La
necessità della trasparenza dei modelli gestionali dipende direttamente
dalla centralità della vita quotidiana nel definire la qualità della
prestazione per il disabile adulto; non basta assicurare gli standard
architettonici di metratura, o gli standard gestionali di personale (pur
pre-requisiti essenziali), ma occorre che siano esplicitate, in sede di
progetto, anche le scelte in termini di organizzazione della vita
quotidiana, di apertura/chiusura all’ambiente esterno, di autonomia degli
ospiti. Questi aspetti sembrano a volte trascurati nelle riflessioni
programmatorie sul "dopo di noi", anche quando si tratta di
operare scelte concrete, come l’approvazione di un progetto per una nuova
struttura residenziale: eppure la domanda delle famiglie – e i bisogni
concreti dei disabili adulti – riguarda proprio questi aspetti, prima
ancora che gli indicatori strutturali. Sperimenta nuove tecnologie (abitative e non) Gli anni più recenti hanno visto un forte aumento della "domotica", che nell’ambito della disabilità assume una valenza essenziale. Molte difficoltà del soggetto possono non costituire handicap se l’ambiente è adeguatamente strutturato; la tecnologia (nella sua rapida evoluzione) è quindi strumento decisivo nel consentire progetti di risposta al "dopo di noi". Anche questo dovrebbe costituire criterio forte nella valutazione e promozione di una nuova progettualità per i bisogni dei disabili adulti. Ha meccanismi promozionali nei confronti dell’utenza "potenziale" Un’ultima
indicazione fa riferimento alla perdurante difficoltà, per le famiglie, di
esplicitare e pubblicizzare il bisogno di assistenza per il proprio figlio
disabile, e di farlo in anticipo. Il sistema dei servizi si trova così a
dover rincorrere sia gli aspetti quantitativi (nuovi posti per nuovi
soggetti), sia la qualità del percorso, dovendo avviare un progetto proprio
in situazione di emergenza, con tempi rapidi, senza "storia
comunicativa" tra famiglia e servizi. Appendice A. Indice generale 1. Aspetti metodologici 1.1 Gli obiettivi della ricerca 1.2 Le scelte metodologiche 2. Lo scenario
3. Il punto di vista delle famiglie
4. Gli operatori dei servizi di fronte al "dopo di noi": ancora all’inizio….
5. Esperienze significative
6. Indicazioni progettuali
B. Staff della Ricerca Direttore scientifico Luisa Ribolzi, Direttore operativo Francesco Belletti E
inoltre ...Claudia Bocelli, Pietro Boffi,
Grazia Cerino, Geneviève Dell’Acqua, Laura Magnani, Isabella Medicina,
Loredana Pianta, Sara Pratobevera, Chiara Vanetti, Renzo Vanetti, Bruna
Vezzulli C. Aspetti metodologici 1. Gli obiettivi della ricerca Le
risposte ai bisogni delle persone definite disabili hanno subito una
evoluzione caratterizzata dalla prevalenza di diversi approcci: dalla
permanenza naturale all’interno della famiglia (famiglia allargata
e vicinato) si è passati a forme anche pesanti di istituzionalizzazione,
per giungere finalmente a riconoscere nuovamente l’importanza di mantenere
per quanto possibile la persona nel proprio ambiente sociale e familiare. Molte famiglie si sono organizzate in Associazioni che hanno investito le loro risorse principalmente nella costruzione di risposte alle molteplici emergenze. Le istituzioni hanno prodotto diversi modelli di intervento che si sono modificati nel tempo, probabilmente con una frequenza tale da produrre continui riposizionamenti di risorse e di approcci (dai CSZ alle USL diventate poi USSL, poi ASL, ridisegnando ogni volta competenze, funzioni ed estensione territoriale). Attualmente le istituzioni sono impegnate in un ulteriore cambiamento che sposta il fuoco dalla erogazione diretta di servizi (in collaborazione con altri enti ed associazioni) alla funzione di programmazione e di controllo, mentre l’erogazione dei servizi viene demandata a una rete differenziata di attori (che si auspica anche "integrata", come recita ad esempio il titolo stesso della L. 328/2000, di riassetto complessivo dei servizi socio-assistenziali nel nostro Paese): enti pubblici, soggetti profit, organismi non profit, ma anche famiglie, come singoli "prestatori di cura" o come "famiglie associate". In questi anni il problema della assistenza alle persone adulte disabili che rimangono prive della presenza dei genitori, acquista una evidenza nuova. Le risposte tradizionali, che prevedevano come soluzione prevalente il ricovero in istituti, vengono sempre più percepite come insoddisfacenti almeno per le disabilità non gravi. Il cammino avviato una trentina di anni fa dalle famiglie e dai servizi per fornire nuove modalità ed occasioni di sviluppo e di cura ha prodotto un significativo miglioramento nei percorsi di vita delle persone disabili; miglioramento che ha comportato una crescita rilevante nella speranza di vita di queste persone. Il disabile adulto, che rappresentava una eccezione, sta diventando fortunatamente una realtà diffusa. La valutazione numerica del fenomeno risente di tutte le difficoltà legate al problema generale della valutazione del numero e delle caratteristiche delle persone disabili. A tale problema si sta da tempo tentando di dare risposta con il ripensamento delle modalità di rilevazione (ISTAT) e di classificazione (OMS) ma in ogni caso i più recenti dati disponibili permettono di valutare la presenza di almeno 700.000 disabili gravi che vivono in famiglia e che dovranno pertanto affrontare il problema dell’invecchiamento e della perdita dei genitori. Si tratta quindi di un problema socialmente rilevante, che richiede una molteplicità di interventi necessariamente integrati tra diversi soggetti, soprattutto a fronte della condizione di "assenza" della famiglia di origine, in genere primo e insostituibile ambito di accoglienza, cura e assistenza per il disabile, fin dalla nascita. La ricerca si propone di acquisire informazioni utili per supportare la progettazione di tali interventi, verificando, nel contesto lombardo, i modelli operativi presenti, le opportunità disponibili per le famiglie e per i disabili, le soluzioni più adeguate, le carenze più rilevanti, alla ricerca di buone pratiche da promuovere e replicare. I risultati del presente lavoro sono quindi indirizzati prioritariamente ai responsabili delle politiche a livello nazionale, regionale e locale, nonché ad istituzioni ed associazioni che vogliano promuovere, finanziare o realizzare progetti innovativi in risposta a tale bisogno. In particolare si intendono analizzare:
2. Le scelte metodologiche Il progetto di ricerca, realizzato sul territorio della regione Lombardia, ha concentrato la propria attenzione su tre principali oggetti di indagine:
2.1 Ricostruzione delle scenario complessivo Ad integrazione della descrizione dei servizi presenti sul territorio, verrà realizzata una disamina delle caratteristiche di altri strumenti di supporto alla condizione di disabilità in età adulta, e in particolare:
L’obiettivo conoscitivo di questa parte di indagine esige competenze di natura prevalentemente giuridica, con l’obiettivo di descrivere e verificare alcuni possibili strumenti regolativi a livello nazionale, che integrano quanto può essere organizzato, in termini di servizi, sul territorio. 2.2 Osservazione sul campo Sono state realizzate le seguenti attività, utilizzati i seguenti strumenti (in allegato):
E’ stato perseguito, con tale strumentazione, un duplice obiettivo conoscitivo:
La
scelta di utilizzare uno strumento qualitativo ha consentito di dare
maggiore voce e rilievo agli aspetti esperienziali, al vissuto concreto di
operatori, volontari, genitori, famiglie; in primo piano non sono quindi
tanto gli aspetti strutturali, organizzativi, burocratici, ma il modo in cui
le persone, all’interno del proprio ambito (famiglia, servizio pubblico,
associazione di volontariato, fondazione…), "attraversano" tali
aspetti nel realizzare i propri compiti operativi. Privilegiare questa
prospettiva significa anche attribuire particolare rilevanza al
"fattore umano", e riconoscere che, al di là delle risorse
economiche, dei piani finanziari, delle qualità architettoniche, della bontà
dei progetti e dei disegni organizzativi, la qualità dei servizi passa
attraverso "relazioni tra persone", soprattutto in un ambito quale
la cura del disabile adulto, in cui il contesto relazionale familiare
costituisce un luogo cruciale, con cui anche gli operatori più
"tecnici" o più "esterni" (come ad esempio un operatore
di un servizio residenziale) non possono non fare i conti. 2.3 Analisi di esperienze significative Ad integrare il duplice approccio descritto nei due punti precedenti (da un lato assetto normativo e organizzativo, dall’altro il punto di vista dei soggetti), si è poi scelto di analizzare da vicino alcune esperienze significative, in cui i problemi dei disabili adulti e del "dopo di noi" sono affrontati in modo specifico; si tratta sia di esperienze concrete di accoglienza, già operative da anni (es. la Poglianasca), sia di progetti in fase di avvio (il RIT), sia infine di strumenti normativi che intercettano alcuni temi cruciali rispetto al "dopo di noi", pur senza essere ambiti di accoglienza diretta del disabile (es. la normativa sull’amministratore di sostegno). In particolare le esperienze/progetti analizzate più da vicino sono:
- Un sistema territoriale integrato di gestione dei bisogni dei disabili adulti (la provincia di Lodi)
Milano, 6 luglio 2004 |