n. 5 SETTEMBRE-OTTOBRE 2009 EDITORIALE SERVIZI
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L’ALLEANZA GENITORIALE
Emozioni, legami e nascita del Sé di
Dolores Rollo I più autorevoli studiosi dello sviluppo umano concordano su un dato fondamentale: i bambini molto piccoli si mostrano competenti e propositivi nell’intessere le interazioni con i propri genitori. La regolazione emotiva e gli scambi affettivi primari si pongono quindi alla base della costruzione dell’identità di ogni individuo. Chi sono? Cosa mi distingue dagli altri? Cosa farò della mia vita? Queste domande riflettono un atteggiamento di ricerca dell’identità, intesa come un autoritratto comprensivo di diversi pezzi: dallo stato civile (identità relazionale) alla preferenza sessuale (identità sessuale), dal credo spirituale (identità religiosa) all’immagine del proprio corpo (identità fisica). Anche se i quesiti sull’identità in costruzione sono particolarmente importanti nel periodo adolescenziale, la formazione dell’identità non inizia e non termina durante questi anni. Essa ha inizio con la comparsa del legame di attaccamento, lo sviluppo del senso di sé e l’emergere dell’autonomia nell’infanzia. Durante l’adolescenza, per la prima volta nella vita, sviluppo fisico, cognitivo e socioemotivo progrediscono a un livello tale che l’individuo può riorganizzare le identità dell’infanzia in un tutt’uno nuovo e irripetibile, orientato da una parte all’individuazione e dall’altra all’autonomia. Intersoggetività e identità Durante la prima infanzia, però, avvengono altrettanto straordinari progressi tali da svelare uno scenario di competenza anche in bambini molto piccoli. Da una parte il perfezionamento degli strumenti d’indagine, quali misurazioni elettrofisiologiche e l’uso del video, e dall’altra il cambiamento del modo di studiare il bambino, hanno dato un enorme impulso alla ricerca. Spostandosi da un punto di vista adulto-centrico, rispetto al quale evidentemente il bambino risultava carente di abilità, si è iniziato a guardare al bambino a partire da capacità semplici come succhiare, girare la testa e guardare (Stern, 1985). Questo cambio di paradigma ha portato ad anticipare a periodi di sviluppo precoci le capacità relazionali, di attaccamento, empatiche, di regolazione dei propri stati interni, fisiologici e non. Inoltre, è stato rotto il mito della relazione diadica madre-bambino e sono stati sollecitati numerosi quesiti sugli atteggiamenti genitoriali che influenzano lo sviluppo del bambino (Fivaz-Depeursinge & Corboz-Warnery, 1999). In particolare, relativamente allo sviluppo dell’identità ci si chiede: quali sono gli aspetti socioaffettivi che definiscono l’identità in sviluppo nella prima infanzia? Quali le prime pratiche quotidiane in cui il bambino impara a definire sé stesso? Attraverso quali modalità i genitori possono influenzare lo sviluppo dell’identità? Fin dal primo anno di vita il bambino è creatore attivo della sua identità sia nei termini della soggettività che dell’intersoggettività. Il bambino cioè propone attivamente le proprie caratteristiche che lo definiscono in quanto soggetto a sé, ma entra anche in relazione attiva con gli altri. È proprio su quest’ultimo concetto di intersoggettivà che si spende buona parte della letteratura contemporanea sullo sviluppo infantile. Competenze neonatali Sono numerose le ricerche che documentano le competenze percettive neonatali: sappiamo, ad esempio, che appena nato il bambino è in grado di riconoscere la voce materna e manifesta preferenza per i volti più che per ogni altro stimolo. Fin dai primi mesi di vita se un bambino al buio sente la forma del capezzolo della mamma, può riconoscerlo anche a livello visivo, cioè è capace di percezione trasmodale, consistente nella traduzione di informazioni derivanti da un organo di senso (es. tattili) in informazioni di un altro organo di senso (es. visive) (Camaioni, Di Blasio, 2007). Diversi studi dimostrano che i bambini nascono con la capacità di produrre le espressioni facciali relative alle emozioni di base – gioia, tristezza, paura, sorpresa, interesse, disgusto – e sono in grado di imitare differenti espressioni facciali come il sorriso, il sollevamento delle sopracciglia, l’espressione di sorpresa o di tristezza. Meltzoff e Moore (2002) confermano l’ipotesi secondo la quale l’imitazione precoce non è un atto riflesso, automatico, bensì intenzionale, che implica un confronto fra sé stessi e gli altri. Se bambini di poche settimane di vita sono capaci di correggere progressivamente la propria espressione per imitare la protrusione della lingua di lato da parte di un adulto, allora si può ritenere che siano capaci di distinguere tra la rappresentazione di un modello (l’atto eseguito da un adulto), facente parte del mondo esterno, e la rappresentazione dei propri atti. I risultati delle ricerche sull’imitazione precoce potrebbero far ravvisare già nel neonato un abbozzo di identità, un "senso di Sé emergente" (Stern, 1985) e, allo stesso tempo, sottolineano l’importanza dei primi contatti sociali e della loro qualità fin dalla nascita. Il bambino è predisposto a entrare in relazione con chi è disponibile a entrare in relazione con lui. Senza un adulto che si fornisce come modello, che stimola il bambino, che entra in sintonia con lui, le competenze neonatali potrebbero non dispiegarsi in tutte le loro potenzialità. Sarebbe come dire che ci si presenta al matrimonio con una ricca dote, ma poi la si lascia chiusa in un baule. Oltre alle percezioni e ai riflessi neonatali (come non rimanere affascinati dal riflesso di Moro: spalancare le braccia e chiuderle quasi ad attaccarsi all’adulto in seguito al trasecolamento per un rumore molto forte o un’improvvisa mancanza di sostegno!) il neonato disporrebbe anche di una motivazione primaria (non appresa) a interagire con gli altri e a entrare in contatto con i sentimenti, gli interessi e le intenzioni altrui (Trevarthen, 1993). Le ricerche svolte negli ultimi anni all’interno dell’infant research (quella branca della psicologia che si occupa dello studio e dell’osservazione del bambino e del suo sviluppo) testimoniano a favore di una precoce capacità intersoggettiva. Trevarthen impiega il termine intersoggettività per indicare gli scambi comunicativi adulto-bambino, centrati sui partecipanti e non sulla realtà esterna, che hanno il loro culmine intorno ai 2 mesi di vita. I comportamenti che caratterizzano queste interazioni sono il contatto occhio-a-occhio, il sorriso, le vocalizzazioni, il baby talk. Scambi affettivi Dall’osservazione delle sequenze comunicative madre-bambino, risulta evidente che i due protagonisti prendono il turno e si alternano secondo uno schema molto simile a un dialogo. Stern definisce questi scambi "danza conversazionale", Bateson "proto conversazioni", e, infine, Schaffer "pseudodialoghi". Espressioni che cercano di spiegare la speciale natura di queste forme comunicative, costruite sulla capacità e sulla volontà dell’adulto di assumere contemporaneamente sia il proprio ruolo di conversazione sia quello del bambino, ma anche differenziate dai dialoghi veri e propri in cui entrambi gli interlocutori assumono ruoli simmetrici e complementari. Verso il terzo mese l’interesse per il contatto visivo e per il dialogo diminuisce: madre e bambino iniziano a giocare, con il corpo, con i suoni e in seguito anche coi giocattoli. A partire dall’ottavo/nono mese si parla di intersoggettività secondaria per intendere l’interazione non più centrata sui suoi partecipanti, ma su porzioni della realtà esterna: madre e bambino comunicano su oggetti o azioni che il bambino compie, vuole compiere o vede compiere dall’adulto. L’intersoggettività si sviluppa e si manifesta in forme diverse a seconda del livello di sviluppo del bambino, perciò non possiamo aspettarci che a poche settimane di vita il neonato sia in grado di rappresentarsi mentalmente l’altro, però è già in grado di condividere emozioni con chi si prende cura di lui. Lo scambio di emozioni e di affetti positivi è il modo attraverso il quale avvengono le prime interazioni a partire dalle routine legate alle attività fisiologiche e cicliche dell’alimentazione e del sonno. Sequenze interattive Le interazioni diadiche madre-bambino basate sulla condivisione degli affetti e in cui la madre riflette gli affetti del bambino e viceversa, precedono nello sviluppo la condivisione di altri stati mentali, come l’attenzione, l’intenzione e i commenti verso gli oggetti del mondo esterno (Lavelli, 2007). Nelle sequenze interattive ripetitive come il bagnetto o la pappa, la madre non solo rispecchia il comportamento espressivo, motorio ed emotivo del bambino, ma gli dà anche un significato fornendo i presupposti per il sorgere del Sé. Facendo esperienza di routine interattive costanti e ripetitive il lattante giunge a elaborare rappresentazioni presimboliche che precedono le rappresentazioni che si formerà su sé stesso e sugli oggetti: ciò che viene rappresentato è proprio l’interscambio diadico, il sé in relazione. Sono prove dell’esistenza di un’organizzazione presimbolica delle interazioni sociali il fatto che da un’osservazione all’altra i comportamenti del bambino si ripetono sempre allo stesso modo, ma anche casi clinici in cui, ad esempio, bambini con madri depresse che hanno acquisito un certo modello interattivo disturbato tendono a replicarlo anche quando interagiscono con adulti non depressi. Capacità autoregolatorie Un’ulteriore verifica viene dalle ricerche sul social referencing o riferimento sociale che mettono in evidenza come dalla fine del primo anno di vita il bambino sia capace di utilizzare l’adulto come guida rispetto a stimoli non conosciuti o ambigui (Riva Crugnola, 2007). Un esempio è quello in cui un bambino, posto sull’orlo di un tavolo, "decide" di andare avanti o no a seconda dell’espressione del viso della madre verso la quale si volta spontaneamente: se la madre sorride o parla dolcemente il bambino prosegue, mentre se è seria e preoccupata il bambino si ferma. Fin da un’età molto precoce, il bambino è capace di organizzare la sua esperienza del mondo selezionando le caratteristiche specifiche di un evento e generalizzandole in rappresentazioni di interazioni (Stern le chiama Rig-Rappresentazioni di interazioni generalizzate). Se il bambino interagisce con adulti incoerenti, imprevedibili che lo coinvolgono in situazioni discontinue e diverse da una volta all’altra, nelle quali i momenti affettivi sono sporadici, vengono meno le condizioni che facilitano la costruzione di schemi relazionali stabili. In queste forme rappresentazionali, gli autori dell’infant research collocano sia processi di autoregolazione (capacità di regolare il proprio stato) sia processi di regolazione interattiva (ogni membro della diade influenza l’altro e viene da lui influenzato) (Beebe & Lachmann, 2002). Il bambino sviluppa appieno le sue capacità autoregolatorie grazie alla funzione regolatoria delle sue emozioni svolta dal genitore. Quanto più il genitore regola le emozioni negative del bambino trasformandole (per esempio il genitore può trasformare l’emozione negativa provata dal bambino per l’impossibilità di raggiungere un oggetto in emozione positiva mediante l’avvicinamento dell’oggetto stesso), tanto più il bambino si crea una rappresentazione di sé stesso come partner relazionale efficace (Riva Crugnola, 1999). La famiglia "alleata" Sul modo di concepire l’affettività e le relazioni interpersonali incidono, oltre alle influenze derivanti dal contesto socio-culturale, quelle che si propagano dalla famiglia e dal gruppo dei pari. In particolare, nella famiglia sono apprese le regole dei rapporti di coppia, fatte proprie le modalità di vita della coppia parentale e acquisite le regole relazionali sui modi di espressione dell’affetto e dell’amore. L’influsso dei genitori sui figli oltre che direttamente, attraverso l’educazione, avviene indirettamente attraverso le interazioni quotidiane in cui i genitori si forniscono come modelli. Sia quando si ripropone l’esempio offerto dai genitori sia quando ci si differenzia, nella scelte e nelle relazioni sentimentali, si tende a riproporre i modelli relazionali acquisiti nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Sebbene il legame del bambino con la propria madre possa essere assolutamente unico e irripetibile, sappiamo che nei modelli di relazione che formiamo il contributo della relazione con la madre è inscindibile da quello della relazione con il padre. Ciononostante la psicologia dello sviluppo, spinta dalla necessità di isolare, controllare e studiare scientificamente le variabili, non è riuscita finora a studiare congiuntamente l’influenza delle numerose variabili implicate nelle relazioni triadiche. Per questo si assiste a una sorta di spaccatura tra modelli teorici e ricerche: se i primi invitano ad adottare una visione sistemica e univoca delle relazioni familiari, i ricercatori sono costretti a eliminare uno degli elementi della triade, studiata a partire dalla sua scomposizione (Camaioni & Di Blasio, 2007). All’interno dei diversi approcci che si occupano dello sviluppo socio-affettivo del bambino, come abbiamo visto, è sempre stato accordato un ruolo prioritario alla figura materna. Solo di recente si è allargato l’orizzonte della "famiglia" significativa per lo sviluppo del bambino e del ragazzo, fino a inserirvi il padre e modelli di relazione triangolari. Negli anni Settanta Michael Lamb, uno tra i più autorevoli studiosi della figura paterna, definì i padri come "coloro che contribuiscono allo sviluppo del bambino ma sono dimenticati". Aveva ragione. Fino a pochi decenni fa il legame con la madre era considerato prioritario e capace di favorire una sana crescita del piccolo o, al contrario, di causare i problemi che il bambino avrebbe manifestato una volta cresciuto. Anche se, in confronto alla mole di dati esistenti sulle madri, la ricerca riguardante i padri è ben poca cosa, si può individuare un percorso evolutivo dell’immagine paterna dagli anni Cinquanta fino ad arrivare ai giorni nostri, con lo studio delle funzioni paterne differenziate da quelle materne. Sono numerose le dimensioni dello sviluppo dell’identità su cui si studiano gli effetti differenziali di madre e padre (Baisini & Fava Vizziello, 2004). Dal punto di vista del linguaggio, ad esempio, si è visto che il discorso paterno è caratterizzato dall’utilizzo precoce del nome del bambino e da commenti che gli attribuiscono un’identità personale. Relazioni triangolari Un certo numero di clinici ha recentemente messo l’accento sull’esperienza di differenziazione psichica e corporea vissuta dal bambino in relazione ai suoi due genitori, il padre-uomo e la madre-donna. Le differenze fisiche fra i due (nel tono della voce, nella massa muscolare, nella postura) inducono delle differenze di stimolazione – e probabilmente anche nelle rappresentazioni cognitivo-affettive – che fanno sì che il bambino percepisca sua madre e suo padre come portatori di caratteristiche sessuali specifiche. Sappiamo inoltre che il padre incoraggia e rinforza l’acquisizione dei ruoli sessuali nella misura in cui incita il bambino e la bambina a scegliere dei vestiti, dei giochi, uno stile ludico conformi agli stereotipi sessuali (Baisini & Fava Vizziello, 2004). Nonostante l’entrata in scena del padre, nella ricerca sullo sviluppo rimane un forte pregiudizio, che consiste nel concettualizzare la famiglia come una collezione, e occasionalmente come una rete di relazioni diadiche intercorrelate, anziché come una totalità inscindibile, come è vista dall’approccio sistemico. Un paradigma che recupera tutti i componenti delle interazioni familiari è quello del gruppo di Losanna con il modello dell’Ltp (acronimo di Lausanne Trilogue Play) (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). Il gioco a tre di Losanna è una situazione semi-standardizzata che permette di esplorare la triade madre-padre-bambino in tutte le sue possibili articolazioni fin dai primi mesi di vita del piccolo. Il gioco dei genitori con il bambino è suddiviso in quattro parti successive: una configurazione del tipo "due più uno", in cui un genitore gioca con il bambino e l’altro resta in posizione periferica; una seconda configurazione "due più uno", in cui è l’altro genitore a giocare con il bambino; i tre partner che giocano insieme; e infine la situazione "due più uno", in cui i genitori parlano fra loro e il bambino resta in posizione periferica. I genitori sono collocati in posizione equidistante dal bambino, che viene posto su un seggiolino collocato di fronte ai genitori in modo che i tre formino un triangolo equilatero. Gruppo in azione Coerente con la teoria sistemica – e con l’esperienza nel campo della terapia familiare delle due autrici – è la scelta di focalizzare l’attenzione sulla practicing family, ossia sulla famiglia in quanto gruppo reale o "praticante", da studiare "in azione", anziché sulla represented family o famiglia rappresentata (Reiss, 1989). Gli schemi interattivi osservati nel gioco a tre vengono, pertanto, considerati come delle pratiche coordinate e condivise della famiglia. Le osservazioni svolte con LTP suggeriscono l’esistenza di competenze triadiche precoci: fin dai tre mesi il bambino è in grado di "ingaggiare" interazioni sia con la madre sia con il padre contemporaneamente. Oltre alla rivalutazione della relazione padre-bambino, in questo paradigma si ritiene importante la co-genitorialità intesa come il modo in cui i genitori lavorano insieme per allevare il bambino, oppure come il grado di coordinazione che essi raggiungono quando realizzano un compito comune. È il concetto di alleanza familiare che permette di oggettivare, per mezzo dell’osservazione delle varie parti del gioco, il modo con cui i genitori lavorano insieme. Collaborazione e contatto Ciascun componente della famiglia è osservato e valutato durante il gioco triadico e i punteggi combinati consentono una valutazione globale dell’alleanza familiare. Le due alleanze funzionali (cooperativa e in tensione) danno la sensazione a chi le osservi che la famiglia stia lavorando insieme come una squadra. I genitori collaborano nel dare sostegno al bambino, creando un contesto favorevole e protettivo per l’adattamento del piccolo che, a sua volta, è in contatto affettivo con entrambi i genitori. Invece nelle alleanze disfunzionali domina il conflitto: nelle collusive la trama del gioco è frammentata, segnata da numerose interruzioni; i genitori sembrano non sapere cosa fare, come gestire la situazione. Nelle alleanze disturbate, invece, alla collusione si aggiunge l’ambiguità. La trama del gioco è sconnessa e il contatto affettivo è negativo. L’alleanza familiare funzionale è ciò che permette di "tessere insieme", di co-costruire l’identità di ciascun membro. Laddove c’è collaborazione e contatto affettivo positivo il bambino prima e l’adolescente poi, saranno accompagnati verso l’adozione di modelli relazionali "sani". Il bello del concetto di alleanza, però, è che anche la disfunzionalità non è mai solo del singolo. Perciò, a partire dall’osservazione di giochi familiari disfunzionali, si offrono al terapeuta possibilità di intervento e di riparazione che proteggano il processo di crescita dei singoli individui. Dolores Rollo
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