Dossier:
Vite in saldoI
cattolici e la recessione:
vie di uscita dalla pazza crisi
di Annachiara Valle
Le
Chiese cristiane avevano messo in guardia dall’idolatria della finanza
facile. Ora che il crack si è esteso a tutte le piazze economiche del
mondo, studiosi ed economisti di matrice cattolica avanzano proposte
concrete per dar vita a un’economia "alternativa".
«La
recessione negli Stati Uniti durerà per l’intero 2008 e, anche se non
sarà come quella del ’29, sarà la più difficile degli ultimi vent’anni».
L’economista Nouriel Roubini, tra i consiglieri economici della Casa
Bianca nel 1998 e del Tesoro nel 1999, era stato buon profeta.
Esattamente un anno fa aveva spiegato che «se guardiamo al mercato
immobiliare, alle vendite al dettaglio, alla disoccupazione, tutto
indica che la recessione negli Stati Uniti non sarà lieve, ma severa»;
aveva poi aggiunto che «sul mercato non ci sono solo problemi di
liquidità, ma di insolvenza» e aveva previsto almeno «quattro
trimestri di recessione».
Il finanziere americano George Soros, investitore di successo, con un
patrimonio stimato di 9 milioni di dollari, aveva dichiarato, negli
stessi giorni: «Sarà la peggior crisi del dopoguerra», mentre
economisti di ogni ordine e grado dibattevano sul futuro della finanza
mondiale. Discussioni passate quasi inosservate al grande pubblico,
anche se i segni della crisi andavano manifestandosi, negli Usa, già
dall’estate precedente.

Saldi
a Manila (foto
P.
Roque/AP).
Solo un anno più tardi, però, i cittadini di tutto il mondo,
italiani compresi, hanno cominciato a prendere familiarità con parole
come subprime e hedge fund. E, quando, lo scorso
settembre, hanno assistito al crollo del colosso Lehman Brothers – una
delle principali banche di investimento internazionali – hanno
scoperto che i giochi erano, in larga misura, già fatti. Il domino
della crisi economico-finanziaria era partito e dagli Stati Uniti si
stava abbattendo sui mercati del resto del mondo.
«Si è sgonfiata la bolla immobiliare», sentenziavano i più,
leggendo i giornali e guardando la Tv. Il pubblico medio, che fino a
quel momento nulla sapeva dei meccanismi che potevano scatenare una
crisi, scopriva così che negli Usa erano stati concessi mutui per
comprare la casa a debitori sub-prime, cioè a soggetti che
secondo la Federal Reserve «hanno tipicamente una storia creditizia che
include insolvenze, o addirittura problemi più gravi, come avvisi di
garanzia, pignoramenti e bancarotta». In altri termini, individui o
famiglie con difficoltà economiche già evidenziate avevano avuto
accesso a mutui per l’acquisto della casa con un interesse iniziale
molto basso.
Quando però gli interessi erano saliti, questi soggetti non erano
stati più in grado di pagare le rate. A questo punto gli immobili erano
passati in mano alle banche, ma la perdita di valore degli stessi
(stimata attorno al 20-30 per cento) aveva fatto sì che essi non
riuscissero a coprire neanche l’importo del debito residuo che gli
istituti di credito dovevano recuperare. A metà settembre, dunque, il
panico si è diffuso tra le banche perché il rischio di insolvenza era
molto alto e si è arrivati alla paralisi pressoché totale del mercato
del credito. Ma se è vero che è stata la crisi dei mutui a far
precipitare la situazione, è anche vero che le cose scricchiolavano
già da tempo. Gli economisti di tutto il mondo avevano cercato da anni
di mettere in guardia istituzioni e cittadini su quel che poteva
accadere e avevano previsto le conseguenze di ciò che oggi è sotto gli
occhi di tutti.

Emergenza
alimentare per i bambini dell’Africa australe
(foto
T.
Mukwazhi/AP).
Anche
la Chiesa si era fatta sentire a più riprese. E nell’ultimo anno
aveva moltiplicato gli interventi. A febbraio dello scorso anno
monsignor Celestino Migliore, rappresentante all’Onu della Santa Sede,
nel corso dell’annuale sessione dell’Esoc (Consiglio
economico sociale), aveva invitato a «proteggere le basse entrate delle
famiglie e dei lavoratori dal collasso finanziario». A ottobre, poi,
aprendo il Sinodo dei vescovi, Benedetto XVI aveva ripreso le critiche
dei suoi predecessori al capitalismo, sottolineando che «il crollo
delle grandi banche ci dice che i soldi scompaiono, sono niente, e tutte
queste cose che sembrano vere in realtà sono di secondo ordine».
Nessuna solidità, aveva aggiunto, «è garantita a chi costruisce solo
sulle cose visibili, come il successo, la carriera, i soldi». Più
recentemente, in occasione della Giornata mondiale della pace del primo
gennaio, il Papa era tornato sull’argomento, insistendo sul fatto che «una
finanza del brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per
chi riesce a beneficiarne durante l’euforia finanziaria», e aveva
denunciato che «la crisi alimentare nasce non tanto dal poco cibo
quanto da fenomeni speculativi e da carenza di un assetto di istituzioni
politiche ed economiche capaci di fronteggiare le necessità e le
emergenze».
Attacchi all’ideologia di un libero mercato senza freni sono
arrivati in questi giorni anche dall’arcivescovo di Westminster,
Cormac Murphy O’Connor, che ha dichiarato: «Nel 1989, con la caduta
del muro di Berlino, il comunismo è morto. Nel 2008 è morto il
capitalismo». Ancora più duro il vescovo luterano Wolfgang Huber,
presidente della Chiesa evangelica tedesca, che ha accusato il
presidente della Deutsche Bank, Josef Ackermann, di una nuova forma di
idolatria del denaro. Di fronte alla recente crisi economica Huber ha
denunciato la «dilagante cultura dell’avidità dei potenti della
finanza». E ha attaccato l’influente banchiere per aver auspicato che
il suo gruppo creditizio possa raggiungere un rendimento del 25 per
cento. Auspicio che, per il vescovo luterano, è paragonabile alla «danza
idolatrica intorno al vitello d’oro».

Uno
stock invenduto di auto Toyota in California.
Negli Stati Uniti le vendite della casa automobilistica sono crollate i
nsieme con quelle di Ford e General Motors (foto
B.
Margot/AP).
Non
che il banchiere tedesco sia l’unico a cercare rendimenti in tempi di
crisi. Se c’è chi perde, c’è anche chi approfitta delle perdite
per consolidare i suoi capitali, speculando sulle disgrazie altrui. E c’è
persino chi "gioca" sui fallimenti. Dopo la bancarotta di
Lehman Brothers, sui portali di scommesse internazionali, infatti, sono
fioccate le puntate su quante banche e quali colossi finanziari
chiuderanno i battenti nei prossimi mesi. E su quanta gente resterà a
casa senza lavoro. Nessuna pietà, insomma, di fronte a un crollo
finanziario senza precedenti dal secondo dopoguerra, che si sta
trasformando in crisi dell’economia reale, in disoccupazione, in
aumento della povertà soprattutto per i Paesi in via di sviluppo e per
le classi sociali più svantaggiate.
Ma se c’è chi pensa ai guadagni di breve periodo o a soluzioni per
tamponare l’emergenza, c’è anche chi si interroga più in
profondità sulle cause di ciò che sta accadendo e sulle lezioni da
trarne. La Federal Reserve sta immettendo liquidità, i governi
nazionali decidono come sostenere interi settori in crisi, mercati delle
auto in testa, la Banca europea abbassa i tassi di interesse, le grandi
imprese cercano i modi più opportuni per rallentare la crisi e
scongiurare la recessione. Ma per il futuro a lungo termine servono
interventi più sostanziali.
«Mi
sento di dire», spiega Luigino Bruni, docente di Economia all’Università
di Milano-Bicocca, «che siamo di fronte alla fine di un certo tipo di
capitalismo finanziario e speculativo. Un capitalismo cresciuto troppo e
male negli ultimi decenni. Questa crisi è il punto di arrivo di almeno
50 anni di economia finanziaria che ha consentito, nei Paesi
occidentali, uno standard di vita superiore alle possibilità reali di
reddito». Inutile prendersela con i mutui subprime, che «sono
stati solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già pieno. D’altra
parte, già Keynes aveva denunciato che il prezzo che si paga a un
capitalismo finanziario che trasforma i 10 euro reali in cento
disponibili per la spesa è quello della fragilità».

Lavorazione
dell’acciaio in una fabbrica tedesca (foto
F.
Bimmer/AP).
Per l’economista, però, «questa crisi è anche un’occasione,
perché segnala uno stile di vita che non è sostenibile nei termini che
si è immaginato per 50 anni. È una crisi seria, importante, di tipo
culturale e antropologico, prima di essere solo finanziaria o economica.
Essa dunque può anche spingere a una riflessione profonda per il
cambiamento. Non si tratta di immaginare un’economia senza banche e
senza finanza, ma occorre che anche oggi fioriscano imprenditori e
banchieri animati da scopi più grandi del solo profitto». Un’economia
"alternativa", come quella che proviamo a immaginare e a
spiegare nelle prossime pagine di questo dossier. Partendo da esperienze
reali che si stanno affermando passo dopo passo.
«Io
la chiamerei "carismatica" piuttosto che alternativa»,
sottolinea Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università
di Bologna e, dal 2007, presidente dell’Agenzia per le Onlus. «Resto
convinto, infatti, che sia l’economia speculativa a essere
alternativa. Alternativa rispetto a un mercato che dovrebbe tornare a
essere quel che era: orientato al bene comune. Si è imposto, negli
ultimi decenni, un modello di sviluppo che non è sostenibile e una
cultura del consumo che è contro la persona. Per uscire dalla crisi,
allora, dobbiamo prendere coscienza che l’attuale economia è
impossibile. E dobbiamo correre ai ripari».
Zamagni non ha dubbi: «Questa crisi annunciata svela tutti i limiti
del neo-consumismo. Un modello che la Chiesa ha condannato e condanna
perché porta alla rovina. Per secoli la finanza è stata vista e si è
svolta in funzione dell’economia reale, cioè in funzione della
produzione di beni e servizi che consentissero lo sviluppo e l’uscita
dalla miseria. In contemporanea con la globalizzazione è invece
avvenuta una inversione: la finanza è diventata fine a sé stessa. Le
correzioni per uscire da questa situazione sono certamente economiche
ma, prima ancora, devono essere culturali». Ne è convinto anche l’economista
Ferruccio Marzano quando parla di «sfida morale» e sostiene che «nel
riformulare le regole non ci si può limitare ad aspetti quali la
concorrenza, la stabilità, la trasparenza, ma occorre far riferimento
all’etica, ripensando anche le finalità dell’economia
internazionale».

Scena
di ordinaria povertà per le strade di Bangkok (foto
D.
Longstreath/AP)
«Le ricette non possono essere solo economiche», concorda Bruni. «Innanzitutto
perché c’è un problema sul fronte di ciò che produce finanza o
impresa; ma c’è, dall’altra parte, anche uno stile di vita che
abbiamo dopato. Si sta consumando troppo e al di là del reddito. Questo
è un problema culturale: si è cercato il lusso facile per tutti e l’indebitamento
al consumo, che moltiplica le possibilità di spesa senza reddito.
Questo sistema era una sorta di catena di Sant’Antonio e a un certo
punto qualcuno ha riconosciuto il bluff. Era inevitabile perché alla
fine, nell’economia, la base dello sviluppo deve essere il reddito, la
produzione, le merci, i beni. Se non c’è questo, non si può creare
ricchezza con un pezzo di carta. Alla lunga la ricchezza che funziona e
crea sviluppo deve essere legata al lavoro umano, non a ingegnerie
finanziarie di varia natura. Questa crisi è anche una crisi di uno
stile di vita propagandato dalla Tv, dai media, dalla pubblicità. Uno
stile che non era sostenibile né dall’ambiente né, come si è visto,
dall’economia».
Carenze strutturali di un sistema che Zamagni sintetizza così: «La
crisi è stata alimentata da quella che potremmo chiamare l’avidità e
cioè questa malsana tendenza a interpretare la felicità delle persone
come strettamente collegata con il possesso e il consumo di beni. È il
cosiddetto modello consumistico che non funziona. Qual è l’idea del
consumismo? Che tu per essere felice devi consumare sempre di più. Tu
sei quel che consumi. Tu sei e realizzi il tuo potenziale tanto più
quanto più riesci a consumare. Allora se questa è la cultura che
diventa pervasiva, le persone sono messe nella condizione di guadagnare
sempre di più per poter consumare sempre di più. Ma per guadagnare di
più non si può attendere il frutto del lavoro, come è stato per
millenni. Un tempo per guadagnare di più bisognava aumentare l’attività
produttiva agendo sul lavoro, sulle risorse, sulle idee. Oggi invece il
meccanismo è che si può guadagnare di più speculando sui mercati
finanziari. In questo modo può accadere che nel giro di 24 ore il
capitale iniziale venga quadruplicato. Tutto ciò, però, solo se hai
fortuna, coraggio e soprattutto un’alta propensione alla truffa. L’attività
speculativa è diventata un’attività a disposizione del cittadino
medio».
Non
è tutto: «L’altro aspetto da tener presente è l’uso delle carte
di credito. Soprattutto negli Stati Uniti, la gente ha in media tre o
quattro carte di credito in modo da alzare la capacità di spendere,
cioè di consumare senza aver prima risparmiato. La tradizione ci ha
insegnato che prima si risparmia e dopo si spende. Con la carta di
credito si elimina il passaggio iniziale: si consuma e solo dopo, se si
riesce a guadagnare, si ripaga quello che si è già preso. Questo
meccanismo per un po’ di anni ha funzionato, ma quando le banche
cominciano a chiedere di rientrare dai debiti cominciano i guai».
Secondo Zamagni sono questi meccanismi, questi stili di vita che vanno
combattuti e sradicati. Essenziali, per promuovere un cambiamento
culturale, sono quelle esperienze come l’economia di comunione, la
Banca Etica, i bilanci di giustizia, il commercio equo e solidale, la
sobrietà.

Negozi
chiusi per crisi a Seattle (foto
T.
S. Warren/AP)
Non
si tratta soltanto di esperienze simboliche, ma di «realtà importanti,
tanto più in questo momento», commenta Bruni. «Essenziali per un
motivo molto semplice: in questa crisi abbiamo avuto dei soggetti che
hanno perso, come le banche d’affari che hanno fallito, ma abbiamo
avuto dei soggetti che hanno vinto, come per esempio la Banca Etica. Chi
ha fatto investimenti in fondi etici, chi aveva un’azione o un’obbligazione
acquistata tre anni fa, oggi ha un titolo molto robusto. Chi aveva
investito in titoli su fondi ambientalmente sostenibili, aveva fatto
soltanto una scelta etica. Oggi però si vede che è stata anche una
scelta economica, perché sono fondi che non sono falliti, anzi si sono
apprezzati. Quando c’è una crisi socio-ambientale, ci sono specie che
si estinguono e altre specie che si affermano. La crisi dimostra che c’è
un’economia sostenibile e una che non è sostenibile né dal lato
della produzione né dal lato del consumo».
Per rendere più forti tali esperienze il professor Zamagni sta
lavorando al progetto di una "Borsa sociale", una sorta di
Piazza Affari studiata su misura per questo mercato. «Occorre chiedere
alle autorità, in questo caso parlamentari e governative, che la
legislazione economico-finanziaria venga adeguata per lasciare spazio a
queste forme», spiega l’economista. «Dobbiamo creare una Borsa
sociale nella quale scambiare titoli di credito che servono a finanziare
le attività che io chiamo "carismatiche". Questo tipo di
economia finora è andata avanti con il sacrificio, le beneficenze, le
donazioni, ma non si può pensare di andare avanti così, dobbiamo
creare strumenti adeguati alle loro caratteristiche».
La
finanza etica è sostenuta anche dal mondo islamico: nessuna
speculazione, niente interesse sui prestiti, nessun investimento in
attività immorali (droga, armi, pornografia). Quello che per i
musulmani è il semplice rispetto delle regole del Corano ha fatto
marciare l’islamic banking al ritmo di un più 15 per cento l’anno
in termini di capitali investiti e lo ha, almeno per il momento, tenuto
al riparo dalla crisi finanziaria. Le grandi religioni, insomma,
condividono le parole chiave: sobrietà, risparmio, lavoro. E condannano
chi pensa di poter uscire dalla crisi spingendo ulteriormente sull’acceleratore
dei consumi. «Adesso», conclude Bruni, «è immorale l’invito al
consumo, soprattutto considerando la precarietà del lavoro. Un governo
che voglia rilanciare i consumi deve offrire lavoro, renderlo più
sicuro, creare nuove opportunità. Altrimenti l’invito a consumare è
una presa in giro per le famiglie che sono in difficoltà. Il problema
vero non è quindi quello dei consumi, ma il tipo di consumi. È sui
bisogni e beni collettivi, come i trasporti e la sanità, che si gioca
oggi il rilancio dell’economia. Scoraggiare l’auto privata e mettere
a disposizione trasporti pubblici che funzionano, per esempio, è
certamente antipopolare, ma è la ricetta che può funzionare. Anche
perché scoraggia l’individualismo, in un momento in cui la crisi più
pericolosa non è quella economica, ma quella dei rapporti sociali».
Annachiara Valle
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