L’INTERVENTO
- GHISLAIN LAFONT Vaticano
II
2000 di questi anni
di Ghislain Lafont
Cinquanta anni fa, il 25 gennaio
1959, papa Giovanni XXIII annunciava la decisione di convocare un nuovo
Concilio ecumenico. Il Vaticano II si aprì soltanto tre anni dopo, l’11
ottobre 1962, e si concluse dopo altri tre anni, l’8 dicembre 1965. Da
quel momento in poi, la Chiesa non fu più la stessa. Per taluni –
pochi, in verità – ciò fu una calamità, una disgrazia contro cui
non cessano di lottare ancora oggi. Per tutti gli altri, a partire dai
successori di Pietro – da Paolo VI fino a Benedetto XVI –, il
Concilio fu una enorme grazia con cui lo Spirito ha voluto benedire la
Chiesa del ventesimo secolo e dei secoli a venire. Non è un caso quindi
che noi di Jesus, che su questa lunghezza d’onda ci collochiamo,
abbiamo deciso di fare memoria del Vaticano II nel modo che riteniamo
più degno per celebrarlo: riprendendo a studiarlo e a farlo conoscere.
Il Concilio è cosa viva. In buona parte ancora da capire e da
applicare. Perciò, a partire dallo scorso mese di novembre, per 9
numeri consecutivi, insieme a Jesus i nostri lettori troveranno allegati
altrettanti volumi sul Vaticano II, ciascuno dedicato a uno dei
principali documenti promulgati dal Concilio. Come era la Chiesa prima
del Vaticano II? Di che cosa si è discusso nell’aula conciliare? Cosa
dicono realmente i testi conciliari? E come è cambiata la Chiesa dopo,
in questi cinquant’anni? A tutte queste domande vuole offrire una
risposta questa nostra collana, intitolata Per leggere il Vaticano II.
Ma che cosa è stato, nella sua essenza, il Concilio? A
tale questione un gran numero di esperti, storici e teologi primi tra
tutti, si sono dedicati nell’ultimo mezzo secolo. Se si dovesse
tentare di sintetizzare con una battuta, si potrebbe dire che è stato
un grande dialogo: una formidabile esperienza di dialogo, della Chiesa
con il mondo, e della Chiesa al suo stesso interno. Ma se il Concilio è
stato davvero una tale esplosione di "grazia del dialogo",
allora – di nuovo – non è un caso che esso torni a fare capolino
nel quotidiano della vita delle nostre Chiese locali, nei piccoli e
grandi momenti di ricerca comune che i credenti, le associazioni
ecclesiali, le diocesi mettono a tema giorno per giorno. È ciò che è
successo anche in occasione della "Cattedra del dialogo" 2009,
un’iniziativa promossa da alcuni anni dall’Ufficio ecumenismo e
dialogo dell’arcidiocesi ambrosiana, insieme con il Centro culturale
protestante, la Comunità di Sant’Egidio, la Fondazione culturale S.
Fedele, Telenova e, per finire, noi di Jesus. Alla "Cattedra"
di quest’anno – guidata dalla filosofa Maria Cristina Bartolomei –
si sono confrontati, il 7 ottobre, il giornalista Gad Lerner e il
filosofo Ugo Perone, sul tema Dialogare oggi: necessità e possibilità,
libertà e rischio; il 21 ottobre è stata la volta della giornalista
radiofonica Gabriella Caramore, che ha discusso con l’arcivescovo di
Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, sul nodo del Dialogo come ethos. L’11
novembre, infine, l’incontro è stato dedicato al tema Cercare
insieme? Oltre il presente: per la società e per la Chiesa. A
dialogare, il filosofo Mario Tronti e il teologo francese Ghislain
Lafont, monaco benedettino, per lunghi anni docente in varie Università
pontificie di Roma. Nelle pagine che seguono, pubblichiamo il testo dell’intervento
di padre Lafont, che non a caso tratta del Concilio Vaticano II. Lo
ringraziamo per la sua preziosa testimonianza.

Foto Archivio Storico Periodici San Paolo.
Nel
1976 Paolo VI scriveva una lettera a monsignor Lefebvre nella quale, tra
l’altro, diceva: «Per certi aspetti, il Concilio Vaticano II è stato
persino più importante del Concilio di Nicea». Si tratta di una
affermazione impressionante. Il Concilio di Nicea non è certo noto nei
dettagli a tutti i cristiani, ma il suo nome è comunque loro familiare.
Sappiamo infatti che il Credo comune a tutte le confessioni cristiane,
recitato frequentemente nelle loro assemblee liturgiche, è il «Simbolo
di Nicea-Costantinopoli». La formula di fede che utilizziamo ancora
oggi e che rappresenta, in qualche modo, la matrice della nostra
coscienza cristiana risale dunque a questo Concilio del 325 dopo Cristo.
È a partire da essa che si è sviluppata l’intelligenza della fede
nei secoli successivi. Papa Paolo VI intendeva forse dire che, dopo
duemila anni, il Concilio Vaticano II sarebbe stato il punto di partenza
di una fase nuova e inedita della nostra coscienza cristiana, su un
cammino destinato a portare alla venuta di Cristo nell’ultimo giorno?
Ci sarebbero dunque stati, nella storia della Chiesa, due Concili
importanti: quello di Nicea, che avrebbe impresso per duemila anni una
direzione feconda all’interpretazione e alla pratica del Vangelo; e
quello del Vaticano II, che avrebbe aperto una nuova epoca per altri
duemila anni, più o meno, secondo i disegni della Provvidenza, e in
attesa di un qualche terzo bimillenario?
Papa Giovanni Paolo II sembra aver avuto un’intuizione simile,
laddove all’inizio del suo pontificato si è sentito come investito di
una missione per la quale la Provvidenza gli avrebbe dato il tempo
necessario: guidare la Chiesa al significativo termine del II millennio.
Dopo duemila anni di cristianesimo, gli veniva come richiesto di
presentare a Dio una Chiesa rinnovata nel Vangelo e purificata dal suo
peccato: di qui la sua insistenza e il suo impegno personale per una
nuova evangelizzazione; di qui anche i tre anni di preparazione
immediata all’anno 2000; di qui, infine, la commovente liturgia
penitenziale celebrata il 12 marzo del 2000. E una volta portato tutto
ciò a compimento, con una fede intrepida nonostante i fallimenti e le
delusioni, il Papa ha affrontato il futuro: che fare e che cosa essere
all’inizio del III millennio? Come percorrerlo in modo da preparare l’avvento
del Regno di Dio?
Bisogna riconoscerlo: queste proposte di Paolo VI e di Giovanni Paolo
II non sarebbero state possibili se non proprio alla fine del XX secolo.
Da un lato, infatti, l’attuale civiltà, almeno in Occidente, ha la
sensazione di essere alla fine, come se avesse esaurito le sue risorse e
facesse fatica a inventare, anche teoricamente, un futuro. Gli aggettivi
che si sentono spesso, come «antico», «classico», «moderno», «postmoderno»,
scandiscono una periodizzazione che dà oggi un po’ l’impressione di
cadere nel vuoto. Un filosofo ha persino parlato di «èra del vuoto».
A essere un po’ più ottimisti, si parlerà di un «tornante», ma è
difficile definire ciò che si profila dietro tale curva. Se si è più
realisti, si propenderà verso la possibile catastrofe che ci attende.
In questa prospettiva, ci si può chiedere se, nel suo contesto e a modo
suo, l’esperienza del Vaticano II non possa contribuire a instaurare
al contrario una speranza: non guardando al passato in modo
unilateralmente negativo, né il presente come minacciato nella sua
essenza, e indicando delle riforme da compiere e delle strade da
percorrere per rilanciare la storia, e non solo nella Chiesa. D’altronde,
si può notare che la durata stessa del cristianesimo è problematica
per i cristiani. La loro fede è centrata su Gesù Cristo, morto e
risorto, che ha realizzato il disegno di Dio sugli uomini e ha
annunciato la sua venuta definitiva per un Giorno che, inizialmente e
per lungo tempo, la Chiesa ha creduto prossimo. E in effetti, se tutto
è compiuto, perché tardare? A che cosa serve dunque questo ritardo,
che cosa costruisce? Che cos’è che Gesù aspetta per manifestarsi?
Talvolta, a vedere le cose per come sembrano, si ha piuttosto l’impressione
di una distruzione progressiva e irrimediabile e allora si è tentati di
guardare indietro e, per quanto possibile, di restaurare un certo
passato: come se il dispiegarsi del tempo avesse come fine solo la
manifestazione del male che arriva al suo culmine, con un piccolo numero
di eletti che, soli, riescono a salvarsi in un’arca di Noè, la
Chiesa. Non è questa la direzione di pensiero e di azione che ci
propongono Paolo VI e Giovanni Paolo II, che si può illustrare qui con
una frase pronunciata sul letto di morte da papa Giovanni XXIII: «Non
è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».
Forse il Cristo non verrà finché il Vangelo non sarà compreso in
pienezza, e ora sappiamo che ci vorrà più tempo di quanto pensassimo.

Foto B. Del Priore/Periodici San Paolo.
Saremmo
dunque a un punto di arrivo: il cristianesimo secondo la tradizione del
Concilio di Nicea; e a un punto di partenza: il cristianesimo secondo il
Concilio Vaticano II. Ma anche, e allo stesso tempo, il mondo alla fine
del grande ciclo iniziato con la filosofia greca cinque secoli prima di
Gesù Cristo, e il mondo che comincia a cercarsi in questo momento.
Per limitarci al cristianesimo, non sappiamo come si collocherà, si
evolverà, si preciserà una tradizione futura di cui conosciamo solo la
matrice, il Vaticano II, e non la storia, perché questa non ha ancora
avuto luogo. Ecco perché è lecito fare uno sforzo di immaginazione per
orientare la riflessione e l’azione, pur sapendo che la realtà sarà
diversa a causa di tanti fattori ancora sconosciuti che interverranno.
In altri termini: si può tentare di definire un "capitolato d’oneri",
o un "preventivo", lasciando agli avvenimenti il compito di
confermare o di invalidare il progetto, in ogni caso di modificarlo
considerevolmente.
Vorrei allora indicare i poli intorno ai quali si potrebbe riformare
l’intelligenza e la pratica della fede nella tradizione vaticana che
comincia. Segnalo, tanto per cominciare, che l’impresa è già stata
ampiamente avviata: come il Concilio di Nicea aveva dato un orientamento
decisivo a numerose discussioni precedenti alla sua convocazione nel
325, così il Vaticano II ha raccolto nel 1965 tutto il lavoro teologico
e culturale in corso nella Chiesa cattolica dalla fine del XIX secolo.
Questo Concilio, in effetti, che ha già più di quarant’anni di età,
è stato reso possibile da più di un secolo di sviluppi nel pensiero e
nella pratica della Chiesa e delle Chiese: il presente si inscrive nel
prosieguo di un passato diversificato, contrastato, ricco. La
congiuntura intellettuale, religiosa, politica, ha guidato
incessantemente i fedeli, i pastori, i teologi a immaginare delle
risposte, talvolta difensive ma più spesso creative. Tuttavia, per
semplificare il mio intervento, propongo di definire i poli di cui ho
parlato tramite l’aiuto di tre espressioni fortemente sottolineate da
papa Benedetto XVI fin dall’inizio del suo pontificato: «Gesù
Cristo» (titolo del volume pubblicato nell’aprile 2007), «Deus
caritas est»e «Spe salvi» (i titoli delle due prime
encicliche di Natale 2005 e del 30 novembre 2007).
«Gesù Cristo». Si può dire che fino al Concilio Vaticano
II il Cristo era più generalmente riconosciuto nel quadro offerto dal
peccato e dalla redenzione: «O Beata colpa che ci è valsa un tale
redentore!», cantiamo ancora la notte di Pasqua. Oggi, i testi del
Concilio e la sensibilità che hanno generato ci mostrano il Cristo
trasfigurato come primo oggetto del disegno amorevole di Dio, secondo la
prospettiva, per esempio, dell’Epistola agli Efesini; è a partire da
lì che bisogna pensare e vivere la nostra fede in Dio, nell’uomo,
nella storia della creazione e della salvezza.
«Spe salvi»: la nostra visione contemporanea del cosmo, che
oggi sappiamo esistere da miliardi di anni, fa presentire l’infinito
della speranza. Essa è commisurata a questa storia immensa, i cui
mutamenti spesso tragici ritmano un cammino che non si indebolirà ma
culminerà nella venuta del Signore. D’altra parte, mentre per troppo
tempo i nostri vecchi hanno vissuto nella paura del Giudizio e dell’inferno,
la speranza – oggi lo avvertiamo – non può essere che per tutti,
secondo le spiegazioni luminose di Urs von Balthasar: la Scrittura ci
rifiuta ogni «sapere» sul numero degli eletti, ma autorizza una «speranza
universale» che si riassume semplicemente così: se spero nella
salvezza di Dio, io che non ne sono più degno di un altro, come potrei
non sperarla per tutti i miei fratelli? O, in termini negativi: se non
spero per tutti, con quale diritto spero per me? Ciò avrà anche delle
conseguenze sulla pratica e il pensiero cristiani.
«Deus
caritas est»: se questo è il
nome proprio di Dio, che ne sarà di noi? Da millenni, infatti, la
nostra preghiera invoca: «Dio onnipotente ed eterno, Dio onnipotente e
misericordioso», e questo si è come inscritto nella nostra mentalità
in rapporto a Lui. Se noi invochiamo abitualmente nella nostra liturgia «Padre
buono», «Dio che ami gli uomini», quale trasformazione avverrà nella
nostra relazione con Lui? Inoltre, dovremo pensare l’amore in modo
più profondo, cosa che significa almeno tre cose: riabilitare il corpo,
la sensibilità, la tenerezza, la dolcezza, la forza, e in seguito la
forza del linguaggio simbolico che esprime queste cose, in Dio come in
noi; valorizzare la parola, organo di scambio, e quindi comprendere che
la verità vera non avviene che nel dialogo; meditare la dinamica dell’amore,
fatta di "dare e ricevere", dare la propria vita perché l’amato,
gli amati vivano e ricevere da loro la vita che, a loro volta, ci
offrono: morte e resurrezione generatrici di comunione. E non solo dare,
ma perdonare.

Foto G. Giuliani/Periodici San
Paolo.
È importante infine notare che l’apertura di un periodo
"vaticano" nella storia non significa sicuramente la chiusura
del periodo niceno. Se consideriamo ciò che una volta si chiamava «la
storia santa», vediamo che è fatta di continuità e di rotture: la
migrazione di Abramo, la discesa di Giuseppe e dei suoi fratelli in
Egitto, l’Esodo, l’instaurazione del regno di Davide, la caduta di
Israele e di Giuda poi, l’esilio, il ritorno dall’esilio con le sue
speranze di volta in volta deluse e feconde, il ministero di Gesù di
Nazaret, la sua morte, la sua resurrezione e l’invio dello Spirito...
Tutte queste tappe sono state delle rotture rispetto a un equilibrio
preesistente che era buono in sé e corrispondeva a una situazione, ma
queste rotture hanno paradossalmente provocato un approfondimento della
Rivelazione: certi rivestimenti della Parola di Dio, utili al loro
tempo, ma effimeri, scomparivano affinché altri apparissero per
manifestare meglio la Parola e disegnassero una nuova speranza.
La Costituzione conciliare sulla Rivelazione, Dei Verbum, lo
spiega molto bene: «Questa economia della Rivelazione comprende eventi
e parole intimamente connessi, in modo che le opere compiute da Dio
nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le
realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e
illustrano il mistero in esse contenuto» (n. 2). Anche se l’incarnazione
di Dio in Gesù di Nazaret rappresenta il punto culminante di questo
processo, questo riprende e continua alla sua maniera, perché l’intelligenza
e la messa in opera da parte degli uomini del mistero di Gesù sono da
riprendere e approfondire incessantemente. La stessa Dei Verbum spiega
bene che, nella Chiesa, «con l’assistenza dello Spirito Santo cresce
infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse... Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente
alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento
le parole di Dio» (n. 8).
In
questa prospettiva, si potrebbe affermare che il periodo iniziato al
Concilio di Nicea e che terminerebbe ora ha definito un’intelligenza
del Vangelo nel quadro di una certa cultura che ha di volta in volta
ricevuto, piegato, modificato, e che il suo successo come i suoi
fallimenti portano a una soglia dove occorre che essa passi la mano. Si
può dire per sommi capi che questa cultura è quella greco-romana,
fatta dunque essenzialmente, ma non esclusivamente, di filosofia greca e
di diritto romano. Essa si è sviluppata sotto il segno del Logos,
termine che ne evoca altri: Unità, Essenza, Verità, Potere... Essa ha
prodotto un’intelligenza della fede che ha autorizzato una maniera di
dire Gesù Cristo e, in seguito, Dio in se stesso, come pure di
incontrarne la realtà attraverso l’evocazione liturgica. Essa ha
valutato e organizzato i precetti del Vangelo nella prospettiva di una
natura umana dotata di facoltà e, essenzialmente, di libertà. Ha
proposto, sia per la Chiesa stessa, sia per la società, una visione e
una pratica politica, in cui il tema gerarchico ha svolto un ruolo
preponderante. Ha interpretato la realtà perenne del male, aggiornando
la realtà del peccato e la prospettiva del Giudizio con, in primo
piano, l’immagine della fine ultima, Cielo e Inferno. Tutto ciò, lo
confessiamo sinteticamente quando recitiamo il Simbolo di
Nicea-Costantinopoli, sotto la cui lettera avvengono tutte le evoluzioni
successive.
È
chiaro che non si tratta di congedarsi da tutto questo! Quand’anche lo
volessimo, non potremmo farlo, è inscritto ormai nella nostra memoria
collettiva, nel nostro spirito, nel nostro cuore, nella nostra fede. Ma
occorre, io credo, riconoscere due cose: in primo luogo, si tratta di
una prima comprensione del Vangelo, un inizio, diceva Giovanni XXIII; ne
deriva che, per essere fedeli a esso, bisogna accedere risolutamente
alla tappa successiva, in cui tutta la bellezza della prima ci sarà
restituita, un po’ modificata, ma definitivamente trasfigurata. Un
po’ modificata: quando si spostano – perché sono intervenute
altre luci – gli elementi che per lungo tempo hanno permesso di
sintetizzare una situazione, è tutto l’insieme a essere rivisto.
Alcuni elementi scompaiono, perché erano provvisori, altri sono
collocati in altro modo e il loro senso ne viene trasformato. Pascal
affermava: «Quando si gioca alla pallacorda, è con una palla sola che
i due giocano, ma uno la piazza meglio». Definitivamente
trasfigurata: i dati messi a punto nei primi due millenni della
Chiesa appariranno senza dubbio in tutta la loro ricchezza quando
saranno posti sotto una luce più brillante.
La seconda cosa che dovremo riconoscere e accettare, al fine di non
prolungare gli errori commessi, è il fallimento parziale della Chiesa
nella sua gestione della tradizione nicena. L’incontro del Vangelo con
la multiforme tradizione filosofica non è mai avvenuto facilmente: vi
sono state per forza delle opposizioni non solo tra pagani e cristiani,
ma anche tra i cristiani stessi, e in un certo senso è normale, perché
se la verità è una, i pensieri e le teologie sono molteplici e
riflettono nella loro diversità le sfaccettature della realtà che
nessuna sintesi umana permette sia circoscritta. Penso tuttavia che,
nelle due prime grandi epoche del confronto tra fede e cultura, cioè la
tarda antichità e il Medio Evo, si sia verificato un incontro alla fin
fine positivo, che ha dato la sua forma all’Occidente antico.
Purtroppo, nell’epoca del Rinascimento, della Rivoluzione copernicana,
della Riforma, si è prodotta, mi sembra, una rottura senza
riconciliazione: la modernità ha preso le mosse, da parte sua, per
pensare e vivere la nuova situazione; la Chiesa cattolica, ferita dalle
perdite subite prima e dopo il Concilio di Trento e ansiosa di mantenere
l’asse fondamentale della Chiesa cattolica, si è ripiegata su se
stessa. Il danno di questa scissione è stato e continua a essere
incommensurabile; le due correnti, invece di unirsi e fecondarsi
reciprocamente, fosse anche nello scontro, si sono separate, con grande
disgrazia dell’una e dell’altra. Noi cominciamo a malapena a
prenderne la misura, ora che la Chiesa si è a poco a poco riaperta alla
cultura e cerca nuovamente di dialogare con gli uomini di questo tempo,
uomini che non hanno sempre fretta di ristabilire la comunicazione.
Credo che uno sforzo di lucidità da entrambe le parti e una autentica
riforma di ciò che è rimasto bloccato per due secoli sia
indispensabile. Non tutti i filoni indicati dal Concilio Vaticano II
sono stati esplorati ed è urgente farlo se si vuole davvero entrare nel
periodo che si sta aprendo e che ho posto, per quanto riguarda la Chiesa
cattolica, sotto il segno di Gesù Cristo, della Speranza e dell’Amore.
In
conclusione: credo che la civiltà e la storia si trovino a una svolta
decisiva e che la Chiesa vi sia coinvolta. Mi sembra possibile, per ciò
che riguarda quest’ultima, definire gli orientamenti di base che
comincia ad assumere, che occorre individuare e che essa deve
perseguire, in particolare affinché sia all’altezza di giocare il suo
ruolo nell’evoluzione del mondo. Inoltre, al fine di meglio
comprendere la natura e le esigenze di questo cambiamento, credo che sia
necessario tentare quella che definisco una critica del pensiero e dell’azione
nel periodo che ha preceduto questa svolta, insistendo sul versante
cristiano della questione. Questo duplice lavoro di apertura sul futuro
e di valutazione critica del passato non può portare, d’altronde,
anche per la Chiesa, che all’ascolto di ciò che le altre correnti di
pensiero e appartenenze, coscienti del cambiamento a cui aspiriamo,
dicono e propongono: cercare insieme!
Ghislain Lafont
|