Dossier:
Chiesa, mass media e
potereChiesa e
media: questioni
aperte su un
"caso serio"
a cura di Annachiara Valle e Giovanni Ferrò
Sugli interrogativi
pastorali ed editoriali aperti dalle dimissioni di Dino Boffo, Jesus ha
organizzato una tavola rotonda, in videoconferenza tra Roma e Milano,
cui hanno preso parte sei noti operatori del mondo dell’informazione.
In questa pagina, il vivace dibattito che ne è uscito fuori.
Inutile
nasconderselo: il "caso Boffo" ha sconvolto e turbato il mondo
cattolico italiano, agitando le acque – tranquille solo in apparenza –
della comunità cristiana e riportando a galla una serie di interrogativi
di estrema attualità che, negli ultimi due decenni, erano stati
parzialmente rimossi e relegati ai margini della riflessione ecclesiale.
Con le dimissioni del direttore di Avvenire, forzate dalla
canagliata de Il Giornale, la Chiesa italiana si è riscoperta a
sorpresa estremamente vulnerabile, dopo che per un ventennio i vertici
della Cei avevano puntato tutto sulla rivalutazione della forza e la
riscoperta dell’orgoglio identitario "cattolico".
Ma al di là del "caso Boffo" in sé stesso, la vicenda
spinge a interrogativi di maggior sostanza pastorale e di più lungo
periodo. Tanto per elencarne alcuni: quali sacrifici e quali conseguenze
negative ha comportato la costruzione negli anni di un piccolo impero
editoriale multimediale, promosso dalla Conferenza episcopale italiana e
gestito da uomini di fiducia dei vertici ecclesiastici? In che modo, una
tale presenza editoriale "ecclesiastica" ha contribuito a
distorcere il già complesso rapporto tra Chiesa e società italiana e tra
Chiesa e mondo politico? Esiste un’opinione pubblica cattolica? O
esistono tante opinioni diverse in un mondo che – dal punto di vista
socio-politico – unitario non è più da tempo? In che misura Avvenire
e gli altri media legati alla Cei hanno dato conto fino a oggi di
questa pluralità di voci interne alla comunità ecclesiale? Il confronto
tra i cattolici è stato incoraggiato oppure è stato mortificato? E
soprattutto: che fare d’ora in avanti? Proseguire sulla solita, vecchia
strada oppure, facendo tesoro degli interrogativi aperti dal "caso
Boffo", aggiustare la rotta editoriale e comunicativa?

I partecipanti nella sede di Milano. Da
sinistra: Giovanni Ferrò, don Antonio Sciortino, Marco Tarquinio, don
Antonio Tarzia, Gad Lerner, Andrea Tornielli
(foto Vision/Periodici San Paolo).
Per tentare qualche riflessione intorno a queste non facili domande, la
redazione di Jesus ha organizzato una tavola rotonda, cui sono
stati invitati giornalisti e operatori della comunicazione di varia
estrazione: Marco Tarquinio, direttore ad interim di Avvenire; don
Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana; Gad Lerner,
ideatore e conduttore della trasmissione di La7 L’infedele;
Andrea Tornielli, vaticanista de Il Giornale; Aldo Maria Valli,
vaticanista del Tg1, e Gabriella Caramore, conduttrice della trasmissione
di Radio 3 Uomini e profeti. Persone, dunque, che operano in
diversi tipi di media e che, pur coltivando diverse attenzioni sul fatto
religioso, hanno mostrato uguale curiosità e intelligenza in un confronto
su questioni non facili.
- Per cominciare: il tema della costruzione di un gruppo editoriale
multimediale promosso in questi anni dalla Cei. Come valutate questa
scelta? Quali rischi presenta? E quali opportunità offre?
Tarquinio: «Il fatto che ci sia un articolato gruppo editoriale
promosso dalla Chiesa italiana è una grande opportunità per l’intera
società civile. Il giornale Avvenire, Tv2000, il network
radiofonico InBlu sono strumenti di comunicazione disponibili e utili e
sul piano dell’informazione sono voci fuori dal coro, da ogni coro, in
questo nostro Paese che il conformismo informativo tiene assai spesso
sotto la cappa di un pensiero unico ostile alla sensibilità cristiana,
soprattutto sulle questioni che le sono più care. Naturalmente, questa
presenza ha comportato e comporta dei problemi. Sono convinto, per
esempio, che l’esistenza di un gruppo così strutturato e dalle grandi
potenzialità abbia dato fastidio a più di qualcuno. Forse c’è anche
questo movente dietro il vergognoso attacco contro Dino Boffo, che di
questo gruppo massmediatico è stato il direttore e l’organizzatore
principale. La questione è ovviamente complessa, e non voglio
affrontarla qui e ora. Mi limiterei poi a ricordare, e non c’è
neanche bisogno di fare esempi, che il tentativo di arruolare la Chiesa
italiana in battaglie di convenienza si sviluppa spesso attraverso la
strumentalizzazione delle posizioni espresse sui mezzi di comunicazione
di ispirazione cattolica. È un dato al quale bisogna stare attenti, che
naturalmente non limita la nostra libertà, ma accresce le nostre
responsabilità».
Sciortino: «Per certi versi, che la Chiesa si sia organizzata come
un editore multimediale è un fatto positivo. C’è bisogno di fare
comunicazione a livello professionale. A volte noi cattolici cadiamo in un
errore: ritenendoci portatori di una verità religiosa, siamo convinti che
basti la sola forza della verità perché essa si diffonda e si affermi,
indipendentemente dal modo in cui questa convinzione di fede viene
"porta" al pubblico e raccontata sui mezzi di comunicazione
sociale. Invece non è così: serve grande professionalità. Se dunque
valuto positivamente questa scelta della Cei, devo però anche
sottolineare che man mano che è cresciuta l’organizzazione, e quindi
anche la potenza di questo gruppo multimediale, è diminuita la vivacità
dell’opinione pubblica ecclesiale. In varie occasioni ho detto che il
nostro Paese oggi ha bisogno di più opinione pubblica. Anche all’interno
della Chiesa, quindi, occorre più dibattito, dialogo, confronto. Invece
mi pare che, nel tempo, si siano spente molte voci all’interno del mondo
cattolico. Si è voluto concentrare le voci fino a ridurle a una sola.
Motivo per cui, oggi, su un qualsiasi tema, per sapere qual è il pensiero
della Chiesa, deve per forza parlare il presidente della Cei. Ecco, l’ambizione
di unificare tutto il pensiero cattolico all’interno di un solo editore
multimediale ritengo sia stato un errore».

Da sinistra, Annachiara Valle, Aldo Maria
Valli, Gabriella Caramore
(foto Catholic Presse Photo/Periodici San Paolo).
- Spesso sui giornali si parla di "mondo cattolico" come
qualcosa di uniforme: si dice che i cattolici pensano questo o quello,
o si sostiene che la Chiesa, anche su temi marginali, ha questa o
quella posizione. Secondo voi, a chi si fa riferimento in questi casi?
Tornielli: «Viviamo in un’epoca in cui la comunicazione si è
estremamente semplificata, in cui sembra che – a partire dalla Tv e
poi, per ricaduta, anche sui giornali – per dare una notizia, o per
crearla quando non c’è, bisogna sempre suscitare una
contrapposizione. È il caso di certi talk show, ma anche di certi
giornali: bisogna avere sempre un pro e un contro. In questo schema,
quando bisogna sentire la voce della Chiesa, finisce sempre che si
interpella un vescovo. E questo perché, fondamentalmente, per i
giornali un laico cattolico – anche di un certo nome – vale sempre
meno di un vescovo qualsiasi, anche di una piccolissima diocesi».
Sciortino: «Dovremmo fare un po’ di chiarezza, distinguendo tra
l’ufficialità ecclesiastica e il mondo cattolico nel suo insieme. Tutti
gli organi di stampa di ispirazione cristiana devono avere la possibilità
e il diritto di esprimersi con libertà e autonomia di giudizio su tutto
ciò che è oggetto di dibattito in questo Paese e all’interno della
Chiesa. L’ho già detto: auspico maggior opinione pubblica all’interno
della stessa Chiesa. Dobbiamo difendere tale autonomia e tale libertà,
perché il rischio è di appiattire la ricchezza del mondo cattolico in
una sola voce. Nel Paese c’è già un pensiero unico, cerchiamo di
evitarlo almeno nella Chiesa. Il problema è lo scarso fermento del mondo
cattolico: dove sono le voci dei credenti laici che intervengono sui
problemi del Paese o sui problemi della Chiesa? Per avere un’opinione su
qualunque tema dobbiamo aspettare che siano solo e sempre i vescovi a
parlare? Il fatto che non ci siano voci autorevoli, espressione del
laicato cattolico, capaci di intervenire e "fare opinione" in
questo Paese mette a disagio gli stessi vescovi perché, alla fine, sembra
che debbano per forza intervenire loro. Credo perciò che sia compito dei
media di ispirazione cristiana dare spazio a tali voci, facendo emergere
la ricchezza e la varietà del mondo cattolico».

Un’edicola nei pressi di Montecitorio,
a Roma (foto C. Fabiano/Eidon).
Tornielli: «Sono d’accordo. Dino Boffo ha avuto il merito e la
grande intuizione di trasformare Avvenire: l’ha fatto diventare
un grande quotidiano, capace di intervenire su tutti i temi, con grande
attenzione agli esteri e con la capacità di valorizzare notizie che altri
giornali non ritengono tali. Però direi che, come i vent’anni di guida
ecclesiale da parte del cardinal Ruini hanno fatto sì che ci si
aggregasse al centro tagliando le ali anche nel dibattito interno, così Avvenire
è passato dall’essere in qualche modo il raccoglitore delle varie
voci presenti all’interno della Chiesa a un giornale che "dà la
linea". Si è trasformato in un giornale che non si limita a
registrare ciò che avviene nel mondo cattolico, ma interpreta la linea
dei vescovi e, in qualche modo, fa da traino. Il rischio, secondo me, è
stato, in qualche caso, quello di tarpare le ali a un dibattito che
bisognerebbe valorizzare di più all’interno della Chiesa. E sono d’accordo
con don Sciortino anche sul fatto che ci vorrebbe un maggiore protagonismo
dei laici su tante questioni. Non mi pare conveniente che siano sempre i
vescovi o la presidenza della Cei a disquisire tecnicamente su questo o
quell’articolo di legge, magari perché interrogati dai giornali. Mi
piacerebbe ci fosse più spazio di intervento per le personalità del
mondo laico. Devo anche riconoscere però che i laici hanno lo spazio che
sanno guadagnarsi, dovrebbero farsi avanti con maggior forza. Non credo
che siano loro negati gli spazi a priori; piuttosto, prevale l’abitudine
dei mass media di intervistare sempre i vescovi».
Valli: «Su questo punto non sono affatto d’accordo. E spiego
perché partendo dalla mia esperienza personale. Posso dire di essere un
ragazzo di Avvenire: ci ho lavorato cinque anni, sono diventato
giornalista professionista lì, e poi la mia carriera ha preso un’altra
strada. Però ho sempre cercato di mantenere un rapporto di
collaborazione, visto anche l’affetto che avevo, da cattolico, per il
giornale dei cattolici. Nonostante il mio tentativo, questo rapporto non
sono riuscito a mantenerlo per via di due episodi molto concreti. Ho
espresso critiche, in quanto laico cattolico, alla decisione del Vicariato
di Roma di non concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby. L’ho
scritto su un giornale che, a differenza di Avvenire, mi dette
ospitalità. Si tratta di Europa: un quotidiano che ringrazio
ancora adesso perché è uno dei pochissimi spazi rimasti a disposizione
dei laici cattolici non allineati sulle posizioni ufficiali della Cei. Il
secondo caso fu quando espressi le mie perplessità sul Family Day.
Sono sposato e ho sei figli, tutti dalla stessa moglie: il Family Day lo
faccio tutti i giorni a casa mia, ma non vado in piazza a manifestare,
usando la famiglia come un randello nei confronti di quelli che non la
pensano come me. È questo che volevo scrivere su Avvenire, ma non
trovai ospitalità. Quando si usa un giornale in questo modo, è chiaro
che i laici cattolici si sentono emarginati e scompaiono dal dibattito.
Non solo da quello intraecclesiale, ma anche dal dibattito culturale del
Paese. Come possono esprimersi, se il principale organo che dovrebbe
essere a loro disposizione non li prende in considerazione? Non si può
usare un giornale in questo modo, arroccandosi e mostrando addirittura
fastidio nei confronti di tutti quelli che non sono allineati con una
presunta posizione ufficiale. Dico presunta perché non stiamo parlando di
dogmi, ma di questioni opinabili. Qui ci sono precise responsabilità, che
risalgono alla lunga presidenza Cei del cardinal Ruini. Occorre allora
interrogarsi sulle responsabilità storiche della situazione in cui i
cattolici si trovano oggi. Se le cose non ce le diciamo con coraggio, ci
trasciniamo in questa situazione di depressione culturale dei cattolici.
Uso la parola depressione perché siamo assenti dal dibattito. Non siamo
emarginati dal mondo laico: nessuno ci emargina, semmai ci siamo
autoemarginati. E il problema di fondo è la libertà di espressione».

Il vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli
(foto Catholic Presse Photo/Periodici San Paolo).
- È davvero così difficile dialogare liberamente? Qual è l’impressione,
se si guarda il mondo cattolico dall’esterno?
Gad Lerner: «Personalmente ho avuto come la sensazione di
passaggio da una stagione della grande curiosità reciproca a una
stagione della diffidenza. Siamo nel 2009, ripenso esattamente a dieci
anni fa, alla vigilia del Giubileo. C’era un dibattito forte, intenso
e aperto sul tema della purificazione della memoria. Ero un giornalista
de la Repubblica e mi avvicinavo a questo dibattito per nulla
intimorito dal fatto che sono ebreo e non appartengo al mondo cattolico.
Non mi sentivo un impiccione, non venivo accolto come un intruso se
osavo dire la mia. L’amicizia che nacque allora con Dino Boffo era un’amicizia
tra persone con percorsi molto diversi, che conservavano concezioni,
mentalità differenti. Dino era un uomo conservatore tanto quanto io,
invece, ero un uomo di sinistra. Ma era un piacere vedersi e persino
sfidarsi sui temi più difficili, per esempio il Gay Pride del 2000 a
Roma. Prevaleva la voglia di aprirsi all’altro. Poi è subentrato –
e dovremmo esaminarne le ragioni storiche – un periodo in cui si è
esaltato il bisogno identitario e di separatezza. Di conseguenza anche
lo strumento informativo dei cattolici è stato rivendicato come uno
strumento di difesa e di formazione orgogliosa della propria cultura,
della propria fisionomia, più che come uno strumento di dialogo. È
cresciuto il bisogno di definire la propria identità in maniera più
"appuntita" nei confronti dell’altro. Di conseguenza, è
stata sacrificata la trasparenza del confronto, anche all’interno del
mondo cattolico. Le voci diverse e i dissensi, naturalmente, sono
rimasti ma si sono manifestati spesso sottovoce e, qualche volta, in
forma di maldicenza. Questo processo ha impoverito la vivacità del
mondo cattolico, ha contribuito a rafforzare la tendenza dei media a
ricercare la voce ufficiale della Chiesa e ha anche favorito chi poi,
sulle maldicenze, ha fatto killeraggio, come è accaduto con il caso
Boffo».
Caramore: «Anch’io, come Valli, ho un piccolo episodio da
ricordare. Su Avvenire ho tenuto una rubrica domenicale per quasi
un anno. È andato tutto bene, finché non ho scritto un articolo –
niente affatto battagliero, ma in cui certo esprimevo un’opinione
diversa dalla linea del giornale – sul testamento biologico. L’articolo
non fu pubblicato. Dopo uno scambio di lettere con il direttore ho
interrotto la collaborazione. Al di là di questo piccolo episodio, che
non incrina il mio apprezzamento per alcune pagine del giornale, la cosa
in sé rilevante, mi sembra, non è il fatto che ci sia un "giornale
dei vescovi", ma che vi venga espressa la "posizione
ufficiale" della Chiesa. Naturalmente capisco che, in un certo senso,
è anche legittimo. Ma mi chiedo se la Chiesa può permettersi di avere
una "posizione ufficiale" su ogni questione della vita umana. La
Chiesa, si sa, nasce come insieme corale. Così è nei Vangeli e nell’esperienza
delle prime comunità cristiane. La pluralità dovrebbe essere costitutiva
della vita ecclesiale. Di questo si sente l’assenza oggi nella Chiesa.
Va benissimo che Avvenire sia il "giornale dei vescovi".
Ma anche i vescovi la pensano diversamente su molte questioni, così come
le singole comunità, i singoli fedeli. La Chiesa dovrebbe essere
espressione della massima libertà plurale e di questo un giornale
"cattolico" dovrebbe dar conto, soprattutto quando si affrontano
temi difficili e nuovi: questioni che riguardano la vita, la morte, la
fede, la nostra partecipazione alla società. Su questi temi nessuno ha
una ricetta decisiva. Neppure su Dio – tantomeno su Dio – si dovrebbe
presumere di possedere una verità. A me risulta strano sentir parlare di
"posizione ufficiale" della Chiesa. Ci si dovrebbe confrontare e
discutere, ma questo è esattamente ciò che manca all’interno della
Chiesa. Naturalmente ci sono uomini e donne di coraggio, sia dentro il
mondo religioso che nel mondo laico. I loro interventi, però, spesso
vengono passati sotto silenzio. In questo clima, molti esponenti del mondo
cattolico finiscono spesso per essere censurati dall’alto o per
autocensurarsi. Da qui, l’altro esito di cui diceva Gad: la maldicenza,
perché se non si può parlare liberamente, si parla alle spalle».

Gad Lerner durante la nostra tavola rotonda
(foto Vision/Periodici San Paolo).
Tarquinio: «Io non sono stato un ragazzo di Avvenire, sono
un cattolico che è diventato professionista nei giornali
"laici". E che è arrivato ad Avvenire, andandosene da un
altro quotidiano importante. Ero a capo del politico, ma la linea politica
stava cambiando e io non potevo più condividerla. Quando non si è d’accordo,
si sceglie! Non si fa scegliere agli altri. So, poi, da professionista
dell’informazione, che i giornali, i telegiornali e le rubriche ovunque
ospitate si possono usare in tanti modi. E so che in ogni giornale c’è
una pluralità di sensibilità e c’è una linea editoriale e politica
concordata con l’editore: direttori e giornalisti i conti li fanno con
questa e con i lettori. È una regola che vale per qualunque testata,
ovviamente anche per Avvenire, che è giornale serio e plurale,
"voce delle voci", ma non una Babele. Se, poi, vogliamo parlare
di vittime della censura e dell’irresponsabilità di stampa, posso dire
che ne conosco una: Dino Boffo. A Valli e a Caramore dico solo che Avvenire
in ogni situazione ha sempre e solo ragionato sui fatti, ma tenendo
bene in conto quei valori che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci hanno
richiamato a considerare "non negoziabili", indisponibili ai
mercanteggiamenti. Mi riferisco alla tutela della famiglia e al rispetto
assoluto della vita umana: dal primo concepimento al termine naturale,
dalla vicenda del disabile a quella del lavoratore disoccupato, passando
per l’immigrato. Quanto alla questione della "voce unica"
della Chiesa, credo che, semmai, si possa parlare di una voce prevalente,
una voce forte che risuona ormai da anni, cioè da quando la Conferenza
episcopale italiana ha cominciato a pesare nel mondo della comunicazione.
Da giornalisti, e questo avviene anche nei giornali "laici" più
attenti, abbiamo imparato a guardare ai momenti – collegiali peraltro
– nei quali la Chiesa italiana elabora, se dobbiamo usare un’immagine
forte, la sua "linea politica", anzi "metapolitica".
Mi riferisco alle Assemblee e ai Consigli permanenti della Cei e agli
interventi, in quelle occasioni, del cardinale presidente che si traducono
sempre in una riflessione molto complessa, a uno sguardo profondo sulla
realtà ecclesiale, con singoli paragrafi che si concentrano sul mondo e
sulla vita civile italiana. Si tratta di indicazioni che aiutano a capire
quali sono i temi all’attenzione della Chiesa. A volte aiutano anche gli
uomini della politica a capire. Il tema dell’impoverimento degli
italiani, per esempio, l’ha posto per primo il cardinale Bagnasco,
grazie ai sensori unici della Chiesa nella realtà viva del Paese, ben in
anticipo rispetto all’esplosione della crisi economico-finanziaria. A
proposito della voce dei laici cattolici che "non si sente",
devo dire che non darei di certo la colpa ai media cattolici. Noi quella
voce la rilanciamo, eccome. Secondo me, accade molto per colpa dei media
laici, che sono disposti ad ascoltare i cattolici solo quando sono in
dissenso clamoroso con la loro Chiesa. Solo in quel caso fanno notizia».

Il cardinale Camillo Ruini
(foto M. Scrobogna/La Presse).
- È stato più volte citato il caso Boffo. L’attacco al direttore
di Avvenire ha a che fare con l’autonomia dell’informazione?
Lerner: «Direi proprio di sì. In questo dibattito su Chiesa,
informazione e potere, non possiamo dimenticare il fatto che il maggiore
responsabile dell’informazione cattolica è stato sostanzialmente
linciato in pubblico. Ed è stato attaccato in questo modo perché ha
osato esprimere – con toni cauti e con il suo linguaggio moderato –
dei rilievi sul capo del Governo. Quelle maldicenze giravano da tempo,
ma sono state usate nel momento in cui Dino Boffo ha osato dare spazio
– qualcuno potrebbe dire molto prudentemente – a una serie di
perplessità diffuse tra i parroci e tra i fedeli cattolici riguardo
allo stile di vita del Presidente del consiglio. Questo, secondo me, è
un problema su cui deve riflettere chi si occupa di media, in
particolare per ciò che riguarda la relazione tra informazione
cattolica e potere in Italia, nel prossimo futuro. Non è un punto che
si possa accantonare».
Caramore: «È chiaro che si è trattato di un attacco politico
mosso a Boffo appena ha osato toccare – e neppure così a fondo – il
"principe". Questo, però, ci porta a interrogarci sui pericoli
di una eccessiva esposizione "politica" della Chiesa. L’attacco
a Boffo è maturato all’interno di una parte politica che si dichiara
spesso e volentieri di ispirazione cattolica e che con la Chiesa in
qualche modo ha "patteggiato", sostenendo ad esempio il Family
Day o facendo promesse per quanto riguarda gli aiuti alle scuole
cattoliche, o altro».
Tarquinio: «Quale sarebbe la parte di ispirazione cattolica? Il
Pdl? Loro rivendicano libertà di coscienza e pluralità di riferimenti.
Per quanto mi riguarda non ho mai pensato che fosse un partito cattolico».
Caramore: «In ogni caso, occorre forse che la Chiesa faccia un
passo indietro rispetto alle mediazioni politiche e anche al
patteggiamento con i partiti, dando più peso all’ispirazione religiosa.
Meno politica e più espressione di fede, si potrebbe dire. C’è bisogno
di sentir risuonare una parola più evangelica, e anche di vedere uno
stile di vita più evangelico. Cosa che, per altro, avviene in molti
contesti cattolici».

Don Antonio Sciortino e Marco Tarquinio
durante la nostra tavola rotonda
(foto Vision/Periodici San
Paolo).
- I giornali cattolici rappresentano la voce della Chiesa? Come
evitare che le loro prese di posizione siano strumentalizzate?
Sciortino: «Credo che vada chiarita la questione della
"voce ufficiale" della Chiesa. Parto da un esempio concreto:
quest’estate mi sono ritrovato con il sottosegretario Giovanardi in un
incontro che riguardava la famiglia. Io insistevo molto sul fatto che la
politica sostiene poco la famiglia. Giovanardi si scaldava molto. E
quando gli ho fatto presente che anche l’editoriale di Avvenire di
quel giorno invitava il Governo a fare di più, lui ha risposto che
sente i vescovi e che i vescovi non dicono questo. E che il testo al
quale mi riferivo non era la voce della Chiesa, ma l’editoriale di un
giornalista di Avvenire. Quello che voglio dire è che c’è
molta strumentalizzazione: quando fa comodo è il giornale dei vescovi,
se invece incita il Governo a fare di più nei confronti della famiglia,
allora è l’opinione di un singolo giornalista. Questo è un nodo che
anche noi dobbiamo sciogliere. Dobbiamo uscire dall’ambiguità,
perché a volte anche noi ce ne serviamo per dare autorevolezza alle
nostre prese di posizione, e a volte viene strumentalizzata dagli altri.
Perché non possiamo prendere delle posizioni chiare, che non
coinvolgono direttamente i vescovi, con tutta l’autorevolezza dei
nostri giornali e dei nostri giornalisti? Se non sciogliamo questo nodo,
restiamo impantanati tra l’ufficialità, l’ufficioso, il non
ufficiale. E allora perdiamo forza e veniamo strumentalizzati».
Tarquinio: «Credo che questo sia un fatto irrisolvibile. Abbiamo
provato con piccole battaglie, come quella di indicare un articolo non con
il nome del giornale, ma con quello del proprietario. Usando De Benedetti
per indicare la Repubblica, la Fiat per indicare La Stampa,
la famiglia Berlusconi per indicare Il Giornale. Traducevamo
immediatamente la posizione dei giornali con la loro proprietà, come
fanno con noi. Perché, alla fine, mi sembra che si considerino i
giornalisti sempre liberamente protagonisti tranne quando vanno a lavorare
nei giornali cattolici. Allora non sono più autonomi. Noi, insomma, non
saremmo persone in grado di elaborare culturalmente un mandato
professionale alla luce della nostra fede e della responsabilità nei
confronti dei lettori. Lo trovo incredibile e insopportabile. Così come
trovo incredibili e insopportabili le menzogne che sono state rovesciate
addosso a Boffo e – posso dirlo? – anche tante false solidarietà».

Lerner e Tornielli
(foto Vision/Periodici San Paolo).
Valli: «Si tratta di una questione molto complessa, credo che
nessuno di noi possa pensare oggi di dare una risposta. È importante,
però, che se ne parli. Franco Monaco tempo fa in un articolo si è posto
la questione espressamente. Già porsi il problema e dibatterne credo sia
importante. Bisogna reimparare il confronto fra di noi, il parlare senza
paure. Se c’è una cosa bella dell’essere cristiani, è che questo è
liberante: siamo liberi dagli idoli, dalle schiavitù. Questa carica
dobbiamo avvertirla e metterla in circolo, dobbiamo donarla, soprattutto a
noi stessi. Parlare, porsi queste domande fa bene. Poi ci sono alcuni
problemi. Paolo VI volle una creatura editoriale, tanti anni fa. Ma i
tempi cambiano con una rapidità che ci lascia spesso sconcertati. Vale
ancora oggi il modello proposto a quell’epoca oppure no? Quando si dice
il "giornale dei vescovi", cosa significa? I vescovi italiani
sono tanti e ognuno di loro è espressione di un territorio, di una
diocesi, di realtà anche molto diverse. Su questo dobbiamo misurarci. Poi
magari il taglio al nodo di cui parlava don Sciortino non arriva, ma il
confronto stesso è una ricchezza. Ciò che vedo talvolta nei media che
hanno la targa cattolica – penso anche alla televisione e alla radio –
è la tentazione, come dicono a Roma, di cantarsela e suonarsela da soli:
di pensare, cioè, che abbiamo la nostra televisione e lì possiamo dire
tutto ciò che ci sta a cuore. C’è il rischio di diventare
autoreferenziali, mentre, invece, occorre farsi coinvolgere nel dibattito
che anima l’intera società. Se non impariamo di nuovo a dibattere tra
di noi, laici cattolici, non riusciremo neppure a entrare nel dibattito
più ampio della cultura del nostro tempo».

Una mostra vaticana su L’Osservatore
Romano (foto C.
Melissari/Eidon).
Tornielli: «La Chiesa dovrebbe riflettere sul modo di valorizzare
di più il dibattito interno e la pluralità dei media, anche dal punto di
vista della gestione degli strumenti. Penso all’enorme valore, di cui
poco si parla, rappresentato dai settimanali diocesani. Mi piacerebbe un
investimento maggiore in questo senso, piuttosto che in altre imprese come
la Tv. Oggi i giovani non leggono i giornali e non guardano neanche più
la Tv. Allora bisogna ripensare anche agli strumenti da utilizzare per
cercare di parlare a interi settori della popolazione, che sono
lontanissimi dalla Chiesa. Credo che bisognerebbe cercare di valorizzare
di più la pluralità di voci anche dal punto di vista mediatico».
Caramore: «Avverto fortemente nella Chiesa la tentazione di
imporre la propria egemonia. Sarebbe invece auspicabile un suo partecipare
al comune dibattito con umiltà, dicendo anche dei "non so",
ascoltando le voci degli altri. Questo atteggiamento di umiltà è
fondamentale, credo, per elaborare un cattolicesimo che sappia stare all’altezza
dei tempi. Vorrei, però, sottolineare anche talune deformazioni dei media
"laici" per quanto riguarda l’informazione sul mondo cristiano
e sul mondo delle fedi in generale. Da una parte emerge un certo
anticlericalismo di ritorno, tante volte stimolato proprio dal
clericalismo gerarchico e anche una grande ignoranza su ciò che è il
fatto religioso. Dall’altra parte vi è anche una grande fascinazione
acritica nei confronti del cattolicesimo romano, che esercita una sorta di
seduzione su chi ha poca dimestichezza con le questioni di fede. Inoltre
non viene data nessuna risonanza, o quasi, ad altre voci maturate in altri
ambiti cristiani o appartenenti ad altri contesti religiosi. Sarebbe
opportuno abbattere questa barriera, prendere atto della varietà
religiosa o semplicemente umana e metterci tutti insieme a cercare delle
risposte ai problemi difficili del nostro tempo».

Gabriella Caramore durante il dibattito
(foto Catholic Presse
Photo/Periodici San Paolo).
Tornielli: «Vorrei ricordare un passaggio del colloquio che il
Papa ha avuto con i giornalisti in occasione del recente viaggio a Praga.
Benedetto XVI diceva che, in qualche modo, il credente ha bisogno dell’agnostico
e del non credente. Così come il non credente non può mai stare
tranquillo ma deve continuare a ricercare, anche il cristiano ha bisogno
di confrontarsi con le ragioni di chi non crede, perché anche lui non
possiede la verità ma ha sempre bisogno di "re-imparare" Dio.
Marco Politi, vaticanista de la Repubblica, ha scritto un libro
intitolato La Chiesa dei no. Non sono d’accordo con la sua tesi
di fondo, però sono d’accordo sul fatto che questa può essere la
percezione che una grande fetta della società ha oggi della Chiesa. La
storia ci mostra che le epoche nelle quali la Chiesa ha più insistito
sulla morale sono state anche le epoche caratterizzate da una minore fede.
La questione, allora, è il modo in cui la Chiesa comunica. La percezione
che ho è che c’è davvero una forte domanda di spiritualità, la voglia
di reimparare il contenuto e il dato di fede. Dall’altra parte, però, c’è
una comunicazione mediatica che mostra una Chiesa che dice soltanto dei
no. Così si finisce per passare l’immagine di una Chiesa che, per dirla
con una battuta della Littizzetto, vorrebbe dirti anche di che colore devi
avere la tappezzeria. La questione essenziale, dunque, è come e che
cosa la Chiesa riesce a comunicare oggi nella società. Con che tipo
di linguaggio comunica? Come trasmette, anche attraverso i media, il fatto
cristiano e l’annuncio evangelico?».
Lerner: «Ultimamente si è affermata una fase in cui la Chiesa,
sentendosi in battaglia, si è trincerata. Sentendosi attore della scena
pubblica che irrompeva, anche legittimamente, nella vicenda delle scelte
legislative, ha ritenuto che non bisognasse mostrarsi deboli e divisi, che
non bisognasse dare argomenti all’avversario e che quindi si dovesse
esprimere una voce unica e chiara, a detrimento del pluralismo. Credo,
però, che la "vicenda Boffo" abbia concluso questa fase. Ci si
è illusi che si potesse avere con il potere una relazione alla pari, da
potenza a potenza: da una parte la Chiesa, forte dello spirito evangelico
e della fede, e dall’altra il Governo, lo Stato. Invece, di fronte a un
potere politico che diventa prepotente e arrogante, quella relazione a due
riporta immediatamente la Chiesa alla sua, per fortuna, naturale debolezza
sul terreno di Cesare. Bisogna essere grati di essere deboli sul terreno
di Cesare e di non essere la Chiesa che è in grado di schierare le
armate. Basta poco per far fuori un direttore di Avvenire, lo
abbiamo visto. Ma questo deve esserci di monito per pensare a un’informazione
più aperta al dibattito interno, ai dubbi, senza paura di mostrarsi
deboli. Credo, insomma, che non ci debba essere, in chi ha fede, la paura
di manifestare anche i propri tormenti e i propri dilemmi».

Alcuni vescovi alle prese con la lettura dei
giornali durante
un’assemblea della Cei (foto
C. Melissari/Eidon).
- In un’Italia sempre più multireligiosa, che tipo di
rappresentazione viene data delle altre confessioni cristiane e
delle altre fedi?
Valli: «Su questo vorrei esprimere grande apprezzamento per Avvenire.
Il giornale dei cattolici, quando parla delle altre fedi cristiane e
delle religioni non cristiane, lo fa sempre con rispetto e in modo
costruttivo. Non ho mai trovato sulle pagine di Avvenire analisi
superficiali. Devo fare, invece, un’autocritica come rappresentante
del mondo dell’informazione televisiva perché credo che il modo in
cui la televisione italiana – e parlo in particolare del servizio
pubblico – affronta la questione della molteplicità di culture e
religioni presenti sul nostro Paese sia assolutamente insufficiente.
Non è possibile che i protestanti, ad esempio, abbiano una rubrica
televisiva che va in onda alle due di notte; non è possibile che una
rubrica religiosa della domenica mattina sia data praticamente in
appalto alla Conferenza episcopale italiana, che ha già i suoi mezzi
di espressione. Queste cose non reggono più nell’Italia di oggi:
occorrerebbe ben altro coraggio, occorrerebbe ben altro spirito d’iniziativa
e soprattutto altri spazi da garantire a tutti. In uno spirito di
laicità, perché non bisogna fare prodotti confessionali nel servizio
pubblico, ma dar voce alla pluralità delle fedi con rispetto e
attenzione. La radio sta facendo qualcosa di più, forse perché più
flessibile e più in grado di cambiare in tempi rapidi le proprie
strutture. La Tv, invece, è clamorosamente indietro».

La nostra tavola rotonda vista da Milano
(foto Vision/Periodici San
Paolo).
Caramore: «Sì, l’insufficienza dell’informazione televisiva
è vistosa. E in questo senso gli stessi cattolici potrebbero fare una
battaglia perché anche gli "altri" credenti abbiano maggiore
spazio e maggiore visibilità. Credo che, se non opera in questa
direzione, il cattolicesimo finirà per tradire la sua stessa origine,
la sua stessa matrice, che è appunto "cattolica", cioè
universale, di dono e accoglienza agli altri. Naturalmente i maggiori
responsabili di questo stato di cose sono i media "laici". Ma
mi rendo conto che, quando si parla delle fedi, si parla di cose molto
difficili e molto delicate. Come dar conto di una fede in televisione?
Bisogna farne storia? Bisogna farne dibattito? Non sono problemi di
facile soluzione, ma bisogna tentare. Sarebbe necessario aprire lo
spazio pubblico non solo ai protestanti all’una di notte o agli ebrei
alle due, ma anche ai musulmani, ai Testimoni di Geova, ai buddhisti, e
così via. Questo però porrebbe il problema di una moltiplicazione all’infinito
di piccoli spazi confessionali. Bisognerebbe forse pensare a uno spazio
laico, capace di contenere diverse esperienze. A Uomini e profeti,
tentiamo di fare questo, non sempre riuscendoci. Andrebbero tentate
forse diverse soluzioni».
Tarquinio: «Quello delle nuove realtà multireligiose è un dato
serio e reale. Ad Avvenire cerchiamo di interpretarlo nella sua
consistenza reale che non è quella condensata nella formula di successo
della multicultura. La multicultura non è la condizione inevitabile, è
il problema da evitare (perché genera separatezza e, dunque, ghetti).
La grande sfida è l’intercultura, la costruzione delle basi di
una cultura civile condivisa che sia percepita come ricchezza comune per
una società, come la nostra, avviata a essere plurale e diversificata
dal punto di vista religioso ed etnico».

Deputati nell’aula di Montecitorio
(foto R. Antimiani/Eidon).
Sciortino: «Occorre tener presente che la multireligiosità
italiana non è soltanto una questione che riguarda il modo in cui i
media trattano l’argomento. Sono in discussione le politiche che il
nostro Paese mette in campo nei confronti di persone che vengono da
altre nazioni, con altri credi religiosi, con altri costumi, altro
colore della pelle. Certo, per molti italiani è già difficile
accettare la loro presenza, ancora più difficile è l’idea di dare
spazio alle loro tradizioni, alla loro religione, alla loro cultura.
Questa, però, è la strada obbligata sulla quale dobbiamo proseguire,
cercando non di alzare dei muri ma di creare dei ponti. Dobbiamo farlo
anche come media cattolici, perché la tendenza a livello sociale e
politico è più spesso quella di creare ostilità e divisioni. Quando
si è parlato di diritto inalienabile alla preghiera, così come aveva
provato a fare il cardinale Dionigi Tettamanzi a Milano, c’è stata
una sollevazione di una parte politica, con critiche ferocissime, come
se ci trovassimo di fronte a un cardinale talebano. In questo settore,
nel confronto con le altre culture e le altre religioni, abbiamo un
cammino lungo da compiere. E i mezzi di comunicazione d’ispirazione
cristiana, che in questo sono più ecumenici dei media laici, possono
veramente dire e fare tanto perché si apra un dialogo fruttuoso. L’interculturalità
non vuol dire semplicemente capire loro e spiegare chi siamo noi, ma
uscire arricchiti reciprocamente da una tale esperienza. Non basta
tollerarsi, mettersi uno accanto all’altro senza mescolarsi, perché
in questo caso rischiamo di creare dei ghetti. Per questo motivo credo
che non basti offrire alle diverse religioni degli spazi confessionali
in televisione. Non vedo il vantaggio di avere uno spazio in cui l’ebreo
parla all’ebreo, il musulmano al musulmano. Auspico, invece, la
creazione di più spazi "pubblici", in cui avere un dialogo e
un confronto diretto, con le voci di tutti».
Tornielli: «Sono d’accordo: l’attenzione dei cattolici ai
credenti di altre fedi va benissimo, però bisognerebbe estenderla
ecumenicamente anche dentro il mondo cattolico. Noto che talvolta sembra
ci sia più facilità a mettersi in dialogo con il mondo protestante,
ortodosso, musulmano, di quanto non si faccia con le varie voci interne,
magari ali estreme, del mondo cattolico stesso. Si è più attenti a
costruire ponti con le altre fedi che, per esempio, con i lefebvriani.
Spesso, nei dibattiti interni dei media cattolici, il mondo dei
tradizionalisti è raffigurato in maniera folcloristica o estremistica.
Non che non ce ne siano motivi, a volte, però si potrebbe avere una
sensibilità maggiore».

Da sinistra, Annachiara Valle, Aldo Maria
Valli e Gabriella Caramore
(foto Catholic Presse
Photo/Periodici San Paolo).
- A vostro giudizio, dal potere oggi la Chiesa è più attaccata o
"accarezzata"?
Sciortino: «A me sembra che mai come in questi tempi nei
confronti della Chiesa ci sia tanta deferenza. Il minimo che si possa
dire è che c’è indubbiamente molta attenzione. Però è un’attenzione
sospetta, perché prevale sempre quella mentalità di fondo che vuole
che la Chiesa se ne stia nel suo recinto, non interferisca nella vita
pubblica, non ponga questioni di fondo. Sant’Ilario di Poitiers
diceva già ai suoi tempi: "Oggi il potere non ci perseguita
più, come all’inizio, uccidendoci, ma ci accarezza la pancia, ci
invita nei palazzi del potere". Credo che questo sia il rischio
peggiore che possiamo correre: essere invitati a palazzo, avere il
massimo di attenzione e deferenza, purché ce ne restiamo nel nostro
recinto. Nel momento in cui si pongono problemi concreti o si mette il
dito su questioni che danno fastidio, allora scatta la ritorsione
brutale, come quella che c’è stata contro Boffo, che alla fine dei
conti è stato un attacco alla Chiesa. È come se fosse saltato una
specie di accordo: voi state nel vostro recinto, lasciate che noi
facciamo le nostre cose, avete tutti gli onori possibili e
immaginabili purché non ci diate fastidio. L’anticlericalismo, l’avversione
alla Chiesa, c’è quando la Chiesa esce da questo recinto. C’è un
attacco alla Chiesa addirittura volgare, come mai era stato in
passato. Sembra quasi che dire cristiano sia sinonimo di cretino e che
chi crede nella Bibbia sia un retrogrado. Si tratta di un problema
culturale profondo, al quale noi cattolici dobbiamo essere capaci di
rispondere, senza sottrarci al confronto serrato, ma costruttivo, con
il mondo laico. Devo anche dire che molte volte siamo molto più
ecumenici noi: nel senso che abbiamo molta più attenzione al mondo
laico di quanta il mondo laico ne abbia nei nostri confronti».

Vescovi durante una assemblea della Cei
(foto F. Frustaci/Eidon).
Tarquinio: «A volte ho la sensazione che il tasso di
clericalismo maggiore sia nella cosiddetta "stampa laica". C’è
la tendenza a ridurre tutto alla prima "voce ufficiale" che si
trova e a chiuderla lì. Soprattutto se questa voce si presta a
trasformare la posizione dei cattolici in un’affermazione negativa, la
"Chiesa del no". E poi vedo una tendenza, a volte pigra e a
volte maliziosa, a usare la Chiesa a seconda delle convenienze,
strumentalizzandone il pensiero, semplificando i pensieri complessi,
leggendo solo una parte delle prese di posizione e dei documenti che
arrivano dalla Santa Sede, dall’episcopato, dalle realtà laicali».
Caramore: «Lo dicevo prima: la Chiesa, in particolare la
gerarchia, dovrebbe pronunciare più parole evangeliche e meno parole
politiche. Sapendo che le parole evangeliche hanno una ricaduta anche
sull’etica e sulla politica. Ma proprio per questo occorrerebbe più
cautela e si eviterebbero così tante strumentalizzazioni. A mio
giudizio, comunque, il problema più profondo e radicale è quello della
scarsa cultura religiosa del nostro Paese. Occorrerebbe affrontare
seriamente il problema dell’insegnamento religioso nelle scuole. Non
un insegnamento confessionale, ma un insegnamento per tutti di cultura
religiosa, a partire da una maggiore conoscenza della Bibbia. La fede ha
i suoi spazi, i suoi tempi, i suoi luoghi, le sue parole, le sue
modalità di trasmissione. Ma nello spazio pubblico, nella scuola,
occorre far crescere il livello culturale. Questo farebbe bene anche ai
credenti, perché maggiore conoscenza significa meno pregiudizi negativi
anche nei confronti della fede».

Un’immagine della tavola rotonda vista
dalla videoconferenza
(foto Vision/Periodici San
Paolo).
- Come accompagnare la crescita di questa cultura, di questa
consapevolezza?
Caramore: «Coltivando un atteggiamento "ecumenico"
in senso lato. Non basta sentire anche l’opinione di un
protestante, o di un ebreo, o di un buddhista, o dell’ateo di turno.
Occorre mettersi tutti sullo stesso piano per discutere insieme i
grandi problemi comuni che riguardano la vita umana, uscendo dai
recinti teologici o dalle esasperate rivendicazioni di identità».
Valli: «Come accompagnare la crescita di una cultura del
dialogo? Valorizzando il tesoro enorme che la Chiesa ha già, dal punto
di vista della conoscenza e dell’esperienza umana. Qui non si tratta
di essere cattolici o non cattolici, cristiani o non cristiani, parlo
proprio di un dato oggettivo: c’è un’esperienza umana grandissima
– pensiamo soltanto all’avventura di tanti missionari – e io, come
operatore dell’informazione, avverto tutta la mia inadeguatezza, oltre
che l’impossibilità di raccontare questa esperienza, questa storia,
soprattutto in televisione, dove ormai valgono soltanto i dati di
ascolto. Persino nei telegiornali, ormai, è l’auditel che detta i
tempi e i temi. Se ci si occupa di un tema religioso e in quel minuto
calano gli ascolti, la volta successiva non se ne parla più. È
accaduto ultimamente con il Sinodo dei vescovi sull’Africa, che non ha
trovato praticamente spazio sui grandi media. La Chiesa è un grande
tesoro che va raccontato nella sua complessità e nella sua grandezza.
Possiamo farlo con dei media che siano di proprietà dei vescovi o
magari su giornali e Tv "laiche". Credo però che dovremmo
cercare di uscire dalla logica ristretta e provinciale nella quale ci
troviamo rinchiusi. Le formule con le quali raccontare questa ricchezza
di esperienze religiose si possono trovare, a patto di voler valorizzare
realmente tutte le voci. La Chiesa ci racconta storie di umanità che
interpellano tutti. Roma, da questo punto di vista, è una città che
raccoglie persone, religiose e non religiose, credenti e non credenti,
che arrivano da tutto il mondo. Quando mi confronto, per esempio, con
religiosi che vivono in Asia o in Africa, mi sento interpellato dai
problemi dell’umanità. Eppure, spesso finiamo per accapigliarci su
piccole questioni di corto respiro, badiamo solo ai nostri minuscoli
orticelli italiani. Il pensiero al Sinodo africano mi permette, da un
lato, di ribadire quale tesoro sia la Chiesa per tutti e, dall’altro,
di ricordare la responsabilità che noi operatori della comunicazione
portiamo in prima persona: la responsabilità di raccontare tutto questo
spessore e questa carica di umanità. Il mio vuole essere al tempo
stesso un’autocritica e un appello. A me stesso, a voi, ai nostri
colleghi: un invito a dialogare di più e a dare più spazio alla
varietà delle voci dei credenti e degli uomini in ricerca. In fondo,
una piccola esperienza l’abbiamo già fatta anche attorno a questo
tavolo. Quest’iniziativa di Jesus è stata l’occasione per
metterci a discutere serenamente, pur partendo da posizioni tanto
variegate, talvolta addirittura lontane. Credo sia stata davvero un’occasione
preziosa, una ricchezza e anche un modo profondamente evangelico di
confrontarsi».
|