«Tre
cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la
via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via
della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna» (Pr
30,18-19).
Con potenti immagini l’autore del libro dei Proverbi
esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell’uomo, creatura
finita, di fronte all’infinito da cui pure è attratto. La coscienza
della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della
totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della
sua grandezza. L’ampiezza del cielo in cui l’aquila vola indica la
possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa
sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non
riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare
sostiene il viaggio dell’uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di
tale ampiezza, solidità e profondità, è la via dell’uomo in una
giovane donna.

I bambini e i ragazzi in generale
sono stati i destinatari principali dei due festival.
A Vicenza hanno costruito il più lungo disegno del mondo sulla Bibbia (30
maggio).
L’uomo/donna
L’icastica bellezza di quest’ultima affermazione ci
introduce di schianto nel tema. L’uomo/donna è la via attraverso cui
ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il
commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti
del nostro tempo: «L’enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi,
è la "strada dell’uomo attraverso la donna" (Pr 30,18s.),
ossia è ciò che fa passare l’uomo attraverso l’immagine di colei che
sta al suo inizio e che lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell’incontro
tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» (L’uno
e l’altro Testamento, Paideia 1985, Brescia, p. 144).
Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell’esperienza
elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza,
svelandone anche la ragion d’essere: nell’incontro tra l’uomo e la
donna accade un ricominciamento e qualcosa di nuovo.
Il nuovo è possibile perché l’incontro amoroso pone
inevitabilmente all’uomo la domanda ontologica sulla propria origine.
Potremmo dirla così: chi sono io che incontrando te incontro
me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l’alterità
ultimamente da me inafferrabile, quell’alterità che mi
"sposta" (differenza) in continuazione, impedendomi di
rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone,
attraverso il suo volto amante, di ricominciare. Nella sorpresa davanti al
volto della donna, misteriosa eppure familiare alterità, è donato
all’uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile identità.
A immagine di Dio
Il volto biblico dell’uomo/donna dice ad un tempo
identità e alterità.
Come mai? Fin dalle prime pagine della Genesi, la
Scrittura risponde a questo interrogativo che emerge dal profondo dell’esperienza
di ogni uomo e di ogni donna. E lo fa, anzitutto, con un’affermazione
potente e radicale: l’uomo/donna, la differenza sessuale, è connessa
all’essere a immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: "Facciamo
l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli
animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra". E
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e
femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: "Siate fecondi e
moltiplicatevi"» (Gen 1,26-28). A proposito di questo passo un detto
del Talmud giunge ad affermare: «Chi non ha una moglie non è uomo».

Aldo M. Valli con il cardinale Scola
che sta esponendo la lectio magistralis
da noi pubblicata.
Insiste poi lo straordinario racconto della creazione
della donna: «E il Signore Dio disse: "Non è bene che l’uomo sia
solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda". [...] Allora il
Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli
tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio
formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse
all’uomo. Allora l’uomo disse: "Questa volta è osso delle mie
ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è
stata tolta". Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due
erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen
2,18-25).
Il racconto della creazione della donna descrive bene l’irriducibile
differenza dell’uomo maschio, pur nella sua essenziale identità con la
donna. Eva è cavata dal corpo di Adamo per essere differente, anche se ha
in comune con lui l’essenza personale. Dio non consulta previamente l’uomo.
Plasma Eva con la costola di Adamo e gliela pone di fronte, come un
interlocutore che egli non si può dare, né può tanto meno dominare,
come invece può fare con tutti gli altri esseri viventi (imporre il nome,
nel linguaggio biblico, significa stabilire la propria signoria). Si
capisce perché per il libro della Genesi a un certo punto della vita l’uomo
lascia i genitori e si unisce a sua moglie per formare con lei una carne
sola. Perché lei è carne tolta dalla sua carne.
La differenza sessuale
Proviamo a raffigurarci – molti artisti lo hanno fatto
– lo sguardo di Adamo che vede per la prima volta Eva vicino a sé...
Fin dal principio la donna è posta davanti all’uomo (e viceversa) come
un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure
profondamente corrispondente a sé. L’uomo e la donna sono identicamente
persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l’essere
umano, fin nell’ultima sua particella: il corpo dell’uomo, infatti, è
in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale svela che l’alterità è una
dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale
insufficienza, aprendola in tal modo al "fuori di sé". E
così l’altro è per me tanto inaccessibile (mi resta sempre
altro) quanto necessario. L’uomo/donna rappresenta uno dei luoghi
originari in cui ognuno di noi fa l’esperienza della propria dipendenza
e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile
intensità, recita il Cantico dei Cantici: «Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!» (4,9).
Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo
come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem 1) vuol educarci a
capire il peso dell’io e il peso dell’altro. La
differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta d’imparare
l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io.
Il bisogno/desiderio dell’altro che, a partire
dall’uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è
pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco
di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino,
perché siamo stati creati a sua immagine.

La Premiata Forneria Marconi con il
concerto "La Buona Novella e altre storie di volti"
chiude il Festival il 2 giugno a Piazza dei Signori.
E in questo modo la via dell’uomo in una giovane
donna, la via della differenza sessuale, dell’amore per sempre, dell’apertura
alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a
tutti possibile per intuire che all’origine della nostra esistenza c’è
un Mistero buono che ci chiama a sé.
La Scrittura insiste sulla possibilità dell’uomo di
risalire dalla contemplazione del creato all’affermazione del Creatore: «Se
affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto
è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio
e autore della bellezza» (Sap 13,3). Sul volto pieno di attrattiva della
donna risplende il Volto di colui che l’ha creata e condotta verso l’uomo.
Per ogni uomo e per ogni donna l’esperienza dell’amore è via di
accesso al riconoscimento di Dio.
Scrive ancora Beauchamp: «Ecco perché il Cantico dei
Cantici, o Canto dei Canti, è un poema sapienziale. Si offende l’amore
dei due fidanzati che vi dialogano se si crede che, per dare a questo
poema un senso spirituale, occorra trovargli un altro tema. Inversamente,
è troppo spiccio anzi sciocco pretendere che il Cantico non significhi
niente altro. Che gli rimarrebbe di enigmatico se la mente non fosse
sollecitata dal fatto che l’uomo vi chiama felicità la novità dell’origine,
trovata sulle tracce del suo inizio? Per tale ragione, l’esperienza
della Sapienza è legata a quella della differenza dei sessi. Là dove l’uomo
ritrova come la propria sorgente e da cui esce un altro uomo, là è il
luogo di elezione della Sapienza» (op. cit., pp. 144-145).
La tentazione dell’idolatria
Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica
profondità l’esperienza dell’amore non è esente dalla più grande
tentazione che minaccia l’uomo: quella dell’idolatria. L’ingiunzione
di Dio al suo popolo nel deserto – «Non avrai altri dèi di fronte a
me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo,
né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto
la terra» (Es 20,3-4) – è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché
non si arresti al volto dell’amato/a, ma in esso renda gloria a colui
che gli ha donato un/a compagno/a di cammino.

L’intervento di mons. Giancarlo
Bregantini.
Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell’esperienza
dell’amore si confonde l’altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta –
addirittura si pretende – dall’altro tutto, cioè il compimento della
propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto
prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo
descrive il libro del Siracide: «Speranze vane e fallaci sono quelle
dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che
afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui
sogni. Una cosa di fronte all’altra: tale è la visione dei sogni, di
fronte a un volto l’immagine di un volto» (34,1-3).
Negata la natura di segno del volto dell’amata, la
consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida immagine.
Ma un’immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il
desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla
superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto.
Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, a imparare la
strada dell’altro/altra quale cammino concreto e possibile verso
l’Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a
questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha
voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato suo Figlio tra noi come via
alla verità e alla vita.
La parola e i gesti di Gesù
Numerose sono le occasioni in cui i vangeli ci
presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con
donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il
volto pieno dell’uomo/donna. E sempre lo sguardo che egli, in netta
antitesi con i costumi del suo tempo, porta alla figura femminile è uno
sguardo integrale che ne afferma l’assoluta dignità e la singolare
vocazione.
Il più delle volte questo suscita stupore, sorpresa al
limite dello scandalo. E non solo tra i farisei (cf Lc 7,37-47), ma anche
tra i suoi discepoli: «Si meravigliavano che parlasse con una donna» (Gv
4,27). Nell’incalzante e decisivo dialogo che Gesù intrattiene con lei
(cf Gv 4,5-30) la Samaritana è un interlocutore reale anche dei più
profondi misteri di Dio, comprese quelle questioni circa il culto cui la
donna, nell’Antico Testamento, non è abilitata.

Un altro dei relatori: Enzo Bianchi.
Il dono di sé, fattore costitutivo del mistero nuziale,
connota i tanti decisivi incontri di Gesù con le figure femminili: da
quello con la peccatrice, che non cessava di bagnare i piedi di Gesù con
le sue lacrime «poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li
cospargeva di profumo» (Lc 7,38) e per questo Gesù dice «le sono
perdonati i suoi peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47); a quello con
l’adultera cui il Signore dona il perdono che responsabilizza: «Neanch’io
ti condanno, va’ in pace e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11);
a quello con la vedova di Nain cui riserva un’indimenticabile
espressione di affettuosa pietà: «Donna, non piangere!» (Lc 7,13); a
quello con la Cananea per la cui fede ha parole di grande apprezzamento (Mt
15,21-28).
«[L’uomo e la donna]», scrive Giovanni Paolo II
nella Mulieris dignitatem, «furono reciprocamente affidati l’uno
all’altra come persone fatte a immagine e somiglianza di Dio stesso. In
tale affidamento è la misura dell’amore» (14). Di tale affidamento, di
tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora
una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del vangelo di
Giovanni: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo
che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi
disse al discepolo: "Ecco tua madre!"» (Gv 19,26-27).
Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto
biblico dell’uomo/donna inserendo il matrimonio nel "luogo"
deputato all’esperienza compiuta del bell’amore: il rapporto nuziale
tra Cristo e la Chiesa. «Questo mistero è grande: io lo dico in
riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua
ami la propria moglie come sé stesso, e la moglie sia rispettosa verso il
marito» (5,32-33).
cardinale Angelo Scola
patriarca di Venezia